Pranzo a Manchester
A una settimana dal commento al sorteggio mondiale, eccoci di nuovo in sede di editoriale a riflettere.
Una riflessione seria, di sabato, impone di porsi a cavallo fra l’accaduto e il divenire, passato e futuro prossimi. Viene spontaneo insistere sui valori messi in gioco dalla tre giorni di coppe, oltre che sulle riflessioni già diligentemente messe in gioco dal nostro Francesco Cucinotta ieri, in questo stesso spazio.
Proprio i risultati della Champions suggeriscono di ragionare su cose lontane, perché sabato si sfideranno due fra le sedici qualificate alla fase a eliminazione diretta. Parlo di Manchester City e Arsenal, due storie profondamente diverse eppure così vicine, perché tanto s’è detto e tanto è stato scritto ma alla fine in campo bisogna andarci, e la sensazione è che a loro modo abbiano superato alcuni dei loro vecchi limiti.
Non sempre benissimo, per esempio, era stata accolta la decisione della proprietà dei Citizens di congedare Roberto Mancini. Uomo che aveva fallito in Europa, per esempio, con budget importanti: si è qualificato questo a questo giro, passando dalla Turchia, ma altrettanto bene ha fatto il suo successore Pellegrini, nonostante il pesante passivo del 2 ottobre all’Etihad col Bayern: 1-3 pesante non tanto nel risultato quanto nel linguaggio del corpo dei giocatori, totalmente lontani dalla coesione e dalla maturità dei bavaresi.
Eppure, proprio il ritardo tattico e caratteriale rispetto al Bayern ha offerto al City un esempio da seguire, l’identikit di ciò che bisogna essere per spaventare tutta Europa, interrompere i cicli spagnoli e fare il definitivo salto di qualità. Mancato con Mancini, difficile ma non impossibile con Pellegrini.
Dall’altra parte, l’Arsenal se l’è vista un po’ brutta nella notte del San Paolo, in un pari per sua fortuna ininfluente ai fini della qualificazione. Certo, casomai il Borussia fosse inciampato a Marsiglia i Gunners avrebbero vinto il girone di ferro (mai definizione è stata più azzeccata) e guardato con meno ansia il sorteggio degli ottavi, ma quest’anno si ha la sensazione che chiunque pescherà la squadra del nord di Londra avrà molta paura.
Perché è come cambiato qualcosa, quest’estate.
L’acquisto di Mesut Özil è un po’ il simbolo di come finalmente Arsène Wenger abbia tirato fuori gli artigli, unendo alla programmazione pluriennale con crescita di giovani rampanti una rinnovata capacità di spesa, quasi a far rinsavire un ambiente ormai abituato a distinguersi ma senza eccellere, a ottenere gli ottavi ma scivolare poco dopo, a piazzarsi per il posto Champions e nulla più. Ebbene, insieme alla crescita di elementi di spicco quali Ramsey e Wilshere, per non parlare di Giroud che non sarà un campione ma la sua figura la fa, ora l’Arsenal è top club europeo, la meno “ambita” fra le prede qualificate come seconde, capolista solitaria della pazza Premier League di quest’anno.
Se è realistico pensare che Liverpool ed Everton, nonostante l’indubbia forma recente, rallenteranno un po’ e lotteranno solo per giocare le prossime coppe continentali, l’Arsenal ha 5 punti sulla seconda, ha perso 2 volte in stagione ma s’è pure abituato a vincere brutto, a spuntarla pure in quei pomeriggi dove la palla di entrare non vuole saperne. Partite in cui collezioni occasioni e tiri in porta e poi alla fine la infili, magari quando ti stava già venendo l’orticaria per i punti persi in classifica, le rivali che s’avvicinano.
Nessuna delle altre ha mostrato la forma e l’autorità di Szczęsny e soci, maturi il giusto e vero tema del campionato inglese 2013-2014: vincere a Manchester sarebbe mettere la freccia e scappare via, rassicurare il pubblico che è veramente l’anno buono.
Se vince il City, la distanza si riduce ed è una svolta. Momento chiave di tutta un’annata sportiva, per mischiare le carte e stordire ancora un poco chi segue questa stagione e ci sta capendo poco.
Le rivedremo in Champions, le rivediamo presto.
Sabato, all’ora di pranzo.
Per capire se è l’#annobono anche per l’Arsenal.