Eccolo lì, nel suo studiolo dalla luce fioca e dalle forniture ascetiche, contornato di libri impolverati dal tempo, diviso tra un ricordo scolastico di Giovenale e uno agonistico di Manfredonia, a rimuginar delle biancazzurre sorti, intento a contabilizzare margini d’azione economici e arrocchi di classifica. Immaginiamo che Claudio Lotito abbia sicuramente il suo da fare, in queste settimane illustrate da una vertiginosa linea a picco, nel grafico dell’andamento stagionale in casa Lazio.
Ei fu: maggio è lontano, come il ricordo della Coppa Italia vinta nel derby con la Roma. Un successo festeggiato per un’estate più tanti tanti giorni, quanti ne servono per risvegliarsi in un presente ostile, consumato e di colpo ombroso, con la sensazione improvvisa d’aver smarrito la retta via, in un bosco popolato di lupi.
Gli errori commessi in corso d’opera ritornano alla mente con rinfacciante saccenteria e senza più timore di smentita. Le conseguenze del mercato estivo urlano come un quadro di Munch dalla colonna destra della classifica, che recita “dodicesimo posto”, al pari di Atalanta e Udinese e sotto Cagliari, Genoa, Torino e Verona.
Stando alle attuali evidenze, dalla società è stato sottovalutato il fatto che, con la vittoria in Coppa Italia, la squadra avesse coronato il proprio ciclo storico, toccando il proprio apice meritorio e anagrafico.
Dal mercato sono arrivati giocatori di buona qualità, come l’argentino Biglia, ma in ruoli in cui tutto sommato la squadra godeva già di qualche risorsa, da Onazi a Ledesma; mentre è restato drammaticamente sguarnito il settore offensivo, dove nessun centravanti all’altezza è arrivato per consentire al trentacinquenne Klose di gestire adeguatamente la marcia verso il mondiale brasiliano, vero obiettivo personale. Il buco offensivo alla fine, si sente e molto. Chiedere all’Atalanta, che può godere dei gol di Dennis o, salendo lì dove non osano oggi le aquile laziali, informarsi presso l’Inter di Palacio (o viceversa e per analogia di destini – dalla Fiorentina priva dell’altro teutonico Gomez), cosa vuol dire oggi, giocare senza un riferimento predatorio in avanti, che sappia arroventare le aree di rigore con il sacro fuoco del gol. Sembrerebbe chiaro che nè Floccari, né Keita – unica nota lieta laziale, ma pur sempre un esordiente – possono porre rimedio definitivo alle paturnie del settore.
Né è più rosea la situazione difensiva, dove l’assenza di Biava e l’accantonamento di Dias hanno lasciato un conto aperto in area di rigore laziale, troppo spesso saldato dagli attaccanti avversari. Alcuni centrali visti in stagione, da Novaretti a Ciani, hanno palesato limiti fin troppo evidenti, per una squadra che abbia il rango della Lazio.
Oltre ad un intervento finalmente calibrato in sede di riparazione invernale (da Quagliarella a Pazzini, ci permettiamo di suggerire qualche nome in libera uscita) – l’unico rimedio per rianimare la squadra, sembrerebbe inevitabilmente prossimo un intervento nella conduzione tecnica.
Petkovic, già autore di un girone di ritorno inappagante (riscattato poi dalla vittoria in Coppa Italia) nello scorso campionato, sembra aver perso il polso della squadra. Ai giocatori trattenuti controvoglia (Hernanes, innanzitutto) e per questo demotivati, si sono aggiunti quelli sfiduciati dall’allenatore (Gonzalez, il più evidente) e in crisi di identità. A Petkovic si può forse rimproverare anche la mancata definizione di una formazione tipo e l’eccesso di sperimentazioni intentate per trovare la quadratura dell’undici giusto. In situazioni come quelle in cui si trova la Lazio oggi, solitamente si aprono due alternative: il tecnico dalla marcata impronta di gioco (come sta accadendo con Di Francesco al Sassuolo) o quello d’impostazione rigorosa, che sappia ristabilire un principio d’ordine (come Mihailovic alla Sampdoria o… Eddy Reja) nei ruoli in campo e nelle gerarchie interne. Petkovic, attualmente, non sapremmo a quale campo ascriverlo.
Certo, è difficile pensare che la Lazio, come pure si è sentito dire, possa incorrere in rischi di scivolamenti nelle sabbie mobili della salvezza.
Qualunque laziale intorno ai quarant’anni, ricorda tuttavia cosa successe nell’85. In quella squadra giocavano giocatori come Giordano e Manfredonia, di ritorno dopo le squalifiche per il calcio scommesse; Vincenzo D’Amico, seppure a fine carriera; un portiere di temperamento come Nando Orsi; il brasiliano Batista, vice Falcao in verdeoro e due mondiali alla spalle; il talento assoluto del giovanissimo Michelino Laudrup. Insomma, una squadra che nel calcio di oggi, lotterebbe per un posto in Europa. E che invece prese un ascensore per l’inferno della b.
Ma analizzando le forze in campo, e limitandoci al Sassuolo (per quanto sorprendente e abile davanti), al Livorno (per quanto organizzato da un tecnico con delle idee) e al Catania (il cui distacco sta prendendo una brutta piega), non è difficile individuare squadre ben inferiori alla Lazio, per tacer di molte altre, qualora i biancocelesti recuperassero il vento a favore.
Ora però, tocca a Lotito, “in primis”, come direbbe lui. La squadra e la tifoseria, attendono le sue mosse.