Certe notizie sono così: ti colpiscono a tradimento, al termine di una giornata lunga e faticosa, e quando hai già le idee chiare su come concluderla: un editoriale da scrivere, argomento scelto, fonti e riferimenti già pronti. Poi, butti tutto. Devi buttare tutto. Perché certe cose vanno oltre: oltre la vita, oltre lo sport.
Confesso un attaccamento particolare, infatti, nei confronti di Nelson Mandela. Quello che, comprensibilmente, in questi giorni tutti scopriranno di avere sempre avuto (succede sempre così). Ne ho scritto anche in un passato relativamente recente, ne ho parlato spesso, a volte riferendomi all’importanza di dimenticare, altre volte semplicemente parlando di persone che ho ritenuto esemplari. Il suo nome è sempre rimasto tra i primi due-tre che ho citato. Persino quando, qualche settimana fa, sono stato “accusato” di credere ai semi-dèi, come esempio ho citato lui: «per quanto io stimi Mandela, non lo considero un semidio, ma un uomo».
Perché la forza del suo messaggio, e soprattutto la sua forza tout court, è stata esattamente quella di essere un uomo. O forse un uomo tra gli uomini. Credere nei propri valori, finché il resto del mondo non se ne rendesse conto. Persino gli Stati Uniti, oggi amici dell’African National Congress, hanno dovuto cambiare idea; e per farlo hanno persino scavalcato il veto del Presidente Reagan al Comprehensive Anti-Apartheid Act, la legge che imponeva sanzioni al Sudafrica se non fosse terminato il regime di apartheid. Che terminò sotto spinte ben più forti, vero; ma non so come sarebbe andata, se gli USA si fossero opposti fino in fondo.
«Sì d’accordo Free Mandela […] ma Free anche Mio Cuggino», cantavano Elio e le storie tese, anni fa. Scherzando su una cosa che comunque non rimane banale. L’ordine dice che le mie idee devono stare in prigione? E lui dalla prigione si batte per quelle idee. Perché i valori sono tali indipendentemente da dove vengono espressi; e nel suo caso assumevano più forza proprio per la costrizione da cui provenivano.
Tra i valori politici: la capacità di capire la necessità di passare oltre. E il rispetto dell’avversario. Capire che l’apartheid era terminato, ma non per questo sarebbe dovuto arrivare un periodo di vendetta, anzi, il contrario: in un momento in cui si deve scegliere tra giustizia e convivenza pacifica orientata al futuro, è stato capace di guidare il suo popolo in modo compatto. Non è stato il presidente del Sudafrica nero, ma il presidente del Sudafrica.
E a ben guardare, la capacità di vedere nel lungo periodo, e il rispetto dell’avversario, sono valori anche sportivi: nessuna squadra giocherebbe più, altrimenti, dopo una sconfitta; e certi problemi non sarebbero mai superati: pensiamo a Calciopoli. E pensiamo a quanto siano piccole le nostre beghe di quartiere, rispetto a quello che è accaduto all’altro capo del mondo.
Tra i valori sportivi: impossibile non citare il film Invictus, che comunque è più che interessante anche visto sotto la lente della leadership. Ma la capacità di comando sarebbe niente senza avere capito l’importanza dello sport nel ricompattare l’immaginario collettivo (pensiamo a quanto un Bartali abbia aiutato il nostro paese a ripartire, nel secondo dopoguerra) sotto una stessa bandiera. Unire due paesi (quello bianco e quello nero) in uno solo: quel suo modo di presentarsi allo stadio, vestito con la casacca degli Springboks, per identificare tutto un paese in una squadra. Non dimentichiamo che il rugby era vissuto come lo sport dei bianchi.
Era il Sudafrica appena riammesso a pieno titolo nella comunità internazionale: esisteva lo Stato, non ancora i cittadini. Poi, ci ripenso, l’ultima passerella: Mondiali 2010 (anche questi sarebbero stati impossibili, senza il suo operato “liberatorio”), i primi in un paese africano. Il nonno perde la nipote, ma per l’ultimo saluto non può mancare. Ha dato tanto al suo paese, è giusto che ne riceva la gratitudine. O che perlomeno abbracci le sue persone e i suoi valori ancora una volta, con il sorriso di sempre, da un pulpito enorme.
Nella tradizione anglosassone, al termine di un ciclo (per esempio, di studi) c’è il cosiddetto commencement: come a segnare il fatto che non ci si è appena laureati, bensì si è appena entrati in una fase superiore. Il ciclo di Madiba, come lo chiamano in Sudafrica, è terminato: ora c’è il duro momento di trovare chi comincerà a esserne l’erede. Come icona, come persona, come uomo.
Ti saluto.