Il “pacco” dello Juventus Stadium
(questo è un articolo apertamente polemico, leggere con cautela)
Non mi piace la retorica nel calcio. L’apprezzavo quand’ero piccolo, quando iniziavo a capire e imparare il significato e l’epicità che sta dietro a molte cose (e a molte storie) del calcio. Ma oggi non più. La trovo una cosa inutile, boriosa e vuota. Buona forse per i tifosi, che spesso si parlano addosso e a cui piace ricordare (e ricordarsi) che il proprio Club ha, ha avuto, è o è stato certe cose. Ma finisce tutto lì. Va bene per parlare del passato, non certo per commentare l’attualità.
E la retorica è, invece (purtroppo), la più grande componente del mondo del calcio italiano. L’evento dei “bambini allo stadio”, per la sfida tra Juventus e Udinese, ce l’ha puntualmente ricordato. Un risveglio di coscienze da ogni dove che nemmeno la scoperta del Sacro Graal: “Evviva i bambini allo stadio! Finalmente! Che belli i bambini!”. Ho sentito di inviati dal campo che parlavano di “atmosfera come al derby del cuore”, e via di buonismo e commenti angelici.
Un quadro, onestamente, imbarazzante.
Perché, come sottolineato giustamente dall’ottimo Francesco Mariani (qui), i bambini allo stadio ci sono andati per puro caso. Ma nessuno l’ha detto. Circostanze eccezionali che la società Juventus ha opportunamente cavalcato ad arte e con tempismo perfetto. Curva chiusa, ultras a casa: occasione perfetta per il marketing. E i media ci sono cascati, gridando al miracolo. Retorica. Propaganda. La stessa società Juventus che soltanto martedì sera, durante la sfida contro il Copenaghen in Champions League, era stata apertamente criticata dai suoi tifosi (“Una società che non difende le curve non è degna di rappresentarle” – “Curva chiusa, ma senza di noi l’unica bolgia è al buffet”); tifosi che, in preda a un’irreale smania di protagonismo, avevano poi lanciato cori direttamente contro chi era seduto in tribuna allo Juventus Stadium.
Si sa, una cosa tira l’altra e l’iniziativa dei bambini diventa improvvisamente utile per dare una spolverata al proprio look mediatico. La Juventus, dal canto suo, ci era già riuscita ampiamente con la questione stadio. “Lo stadio che cambia il calcio” era lo slogan. In realtà non ha cambiato nulla. Anche perché stadi così, nel resto d’Europa, li costruivano già a metà anni ’90. Innovativo e meraviglioso soltanto perché attorno c’è il nulla del panorama-stadi del resto della penisola. Facile. Un po’ come gli spagnoli che offrivano specchietti agli indigeni dopo la scoperta dell’America. Tutto può diventare sensazionale. Ma non importa, ancora oggi se ne parla come l’El Dorado dell’architettura futbolística, basta crederci.
D’altra parte giornali, giornalisti e giornalai in questo Paese non attendono altro che pendere dalle labbra di certi esponenti del calcio. Un po’ come quelle squadre estere che hanno in rosa (o sono allenate da) un italiano, e diventano automaticamente ilCitydiMancini, loZenitdiSpalletti, laFranciadiPogba e via dicendo (Rafa Benitez era quello della “sculata” di Istanbul, ora viene dipinto come un maestro di calcio…). O l’enfasi nei giudizi carichi di provincialismo prima e dopo le sfide contro Club europei. Il Milan sulle maglie porta scritto “Il Club più titolato al mondo”. La diatriba sulla terza stella bianconera la conosciamo. Il Barcellona è diventato una moda perché piace la retorica della cantera e di Messi-angioletto (ma 8 persone su 10 non sapevano nulla del Barça fino all’altro giorno).
Non siamo nuovi a sentir parlare di calcio in questo modo. Frasi a sensazione, paragoni bellici, enfasi ovunque. Una scelta utile quando si ha poco da dire, per ingigantire quello che resta. Molti di quelli che parlano di calcio, in Italia, raccontano sempre meno ma vendono sempre più. Imbonitori. E ora anche “i bambini allo stadio”. Peccato ci siano andati solo per caso.