Quando Conti per qualcuno

Nella domenica di Salernitana-Nocerina, dei cori e delle provocazioni tra le tifoserie di Juventus e Napoli e di tutto il resto di cui settimanalmente sentiamo parlare, deve per ovvie ragioni essere sottolineato il gesto di Daniele Conti dopo la rete al Torino e la successiva lettera di ringraziamenti del padre Bruno.

Stanchi e stufi di questa situazione nel calcio italiano scrolliamo le spalle, rassegnati che lo stadio non sarà mai un posto per famiglie dove figli e genitori tra serenità e divertimento possano condividere una passione. Le istituzioni non riescono a risolvere il problema, nemmeno ad arginarlo, sembra quasi però manchi la volontà di farlo. Cosi dobbiamo nutrirci di piccoli gesti per ancorarci a questo sport che con i suoi difetti mette a dura prova il nostro amore per lui.

In questo buio scenario, domenica un semplice gesto ha irradiato il calcio italiano di luce e bellezza, di semplicità e sentimento. L’esultanza di Daniele Conti dopo la rete vittoria contro il Torino non è niente di più naturale dell’abbraccio tra un padre e un figlio. Un genitore che nell’esercitare la propria passione, nell’espletare il proprio lavoro, arriva a una soddisfazione importante e che per prima cosa vuole condividerla con un abbraccio col figlio Manuel.

Un gesto che ha inorgoglito il nonno, che a 58 anni, seduto sul divano di casa, racconta di aver pianto di fronte all’abbraccio tra i due. Un gesto che ha spinto Bruno a prendere carta e penna per elogiare tutto quello che Daniele è diventato: figlio, calciatore e padre.

Nel gesto di Daniele c’è l’emozione di quando lui seguiva papà Bruno, quando con gli occhi grandi e fissi lo osservava muoversi con disinvoltura nel mondo dei grandi, sotto lo sguardo di migliaia di tifosi. In quei momenti nascevano i sogni che il ragazzo, con sacrificio, ha tramutato in realtà, tra ostacoli e difficoltà. Nella lettera di Bruno invece, c’è tutto l’orgoglio di un padre per la realizzazione del figlio come uomo e atleta.

Così la grandezza di un gesto rende piccolissimi tutti quegli infami che allo stadio ci vanno per disprezzare, odiare e scaricare la loro rabbia. Un grosso insegnamento ci ha regalato la famiglia Conti, cognome nobile e conosciuto nell’ambiente calcistico, che ha saputo darci una lezione di vita attraverso il calcio. Abbiamo visto in Daniele l’uomo, prima del professionista, e grazie a Bruno ci siamo resi conto che anche un idolo in un mondo privilegiato  come quello del calcio può essere esempio di umanità e genuinità.

Daniele Conti è un giocatore straordinario, trascurato spesso dai media e dagli addetti ai lavori. Figlio di Bruno Conti (campione del mondo con l’Italia nel ‘82), è da anni l’anima e il capitano del Cagliari, una bandiera di quelle che se ne vedono sempre di meno, con 300  partite in Serie A, di cui 295 con la maglia dei sardi (e 5 con la Roma). Arrivò nell’isola nel lontano 1999 e da lì non è mai più andato via, nonostante i difficili campionati in Serie B. Nato e cresciuto sotto paragoni scomodi legati al padre, Daniele è riuscito a scrollarseli di dosso, diventando un grande giocatore come papà, anche lui idolo,  ma di colori diversi.

Speriamo che sia questa l’immagine che resterà negli occhi dei bambini, più delle creste, più degli orecchini. Questa sana immagine di babbo che abbraccia il figlio, mentre si riempiono di lacrime gli occhi del nonno, che orgoglioso scrive a quell’uomo che oggi è la sua continuazione in questo Mondo.

Raccontatela questa storia, fatela leggere, trasmettetela soprattutto ai bambini, non lasciate che la loro testa si riempia di un calcio superficiale, vuoto e spocchioso. Questa storia deve essere uno spot per il calcio italiano. Quando nella tua vita, con il tuo lavoro, con il tuo essere, conti per qualcuno, quello è il vero successo, tutto il resto fa da contorno.  Prima di essere giocatori, bisogna essere uomini.

E allora eccola la lettera di Bruno per il figlio Daniele, la riporto perché tra le righe leggerete molto di più di quanto abbia raccontato io:

«Pensavo di averle vissute e provate tutte, poi mi ritrovo a 58 anni sul divano davanti alla tv con le lacrime agli occhi, e tua madre accanto, non spiccica parola, mi guarda incantata e troppo emozionata e felice per parlare e rompere l’incantesimo. Già ci avevi fatti piangere l’anno scorso con Brunetto, ora Manuel. La stessa scena, la stessa gioia. Perché quell’abbraccio racconta una famiglia, la nostra famiglia. Perché tutti conoscono il grande calciatore che sei diventato, in pochi però sanno quanto tu sia un grande uomo, un grande figlio, un grande padre.

Mi capita spesso di ripensare a quella mattina in cui mi chiamò il direttore sportivo della Roma Franco Baldini per comunicarmi la tua cessione al Cagliari in comproprietà per una stagione. Proprio in Sardegna, pensai, la terra in cui io e tua madre ci eravamo innamorati nell’estate dell’82. Ero felicissimo, anch’io poi mi sono dovuto fare le ossa al Genoa prima di giocarmela nella Roma. Forse all’inizio, in cuor mio, speravo di rivederti presto con la maglia giallorossa, e quel gol al Perugia sotto la Sud resterà un ricordo indelebile. Quindici anni dopo è andata in tutt’altro modo. Una storia diversa, forse più bella, di sicuro speciale. Hai fatto una scelta importante, la più difficile, ma alla fine hai vinto tu.

Ricordo i primi momenti al Cagliari, l’esordio, i sogni, le difficoltà. Per anni ti sei portato sulle spalle quel cognome pesantissimo, ingombrante. Soffrivo quando la gente ti paragonava a me, non era giusto. Col tempo però, hai zittito tutti, poi li hai conquistati sul campo. Col talento, con la forza, col carattere. E in questo sì, siamo uguali perché entrambi siamo testardi e corretti allo stesso tempo, non cerchiamo sotterfugi, guardiamo tutti in faccia a testa alta con la cultura del lavoro e della famiglia.

I due gol al Torino mi hanno ricordato quello al Napoli nel 2008. Proprio in questi momenti vengono fuori gli uomini duri. E da capitano vero a fine partita, ti ho ascoltato commosso, hai dedicato la vittoria ai compagni e ai tifosi.

Forse dal vivo io e tua madre non ti abbiamo mai realmente detto quanto siamo orgogliosi di te. Oltre ad aver onorato il nostro sangue in campo, hai portato avanti, grazie anche a tua moglie Valeria, i valori della nostra famiglia in una società complicata, problematica e superficiale, come faceva tuo nonno Andrea, muratore e padre di sette figli. E per questo, figlio mio, non smetteremo mai di ringraziarti.»