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Boninsegna, le rovesciate e gli infortuni retorici della Nocerina

Compie settant’anni in questi giorni Roberto Boninsegna, centravanti del passato di Inter, Cagliari, Juventus e della Nazionale. E’ un nome consegnato alla storia, che molti di noi non hanno nemmeno visto giocare, eppure capace di evocare il calcio dei grandi campioni, caro ai nostri padri o ai nostri nonni. Da Gigi Riva a Rivera, da Chinaglia a Paolino Pulici, chi ama il calcio ha comunque imparato a conoscere questi cognomi illustri, ai quali la fantasia può attribuire gesta scolpite nei bassorilievi della colonna traiana del pallone. La distanza che ci separa dalle rovesciate di “Bonimba” o dalle imprese dei legionari romani contro i Parti, se storicamente è un abisso incomparabile, nella misura fantasiosa di chi ha imparato da fonti cartacee a conoscere un passato mai vissuto, in realtà è solo un differente momento del proprio percorso di apprendimento, appiattito nell’essere qui ed ora di un ricordo costruito artificiosamente, tramite resoconti di terzi.

Boninsegna, mitologicamente inteso è un essere metà calciatore e metà colpo di testa, passato alla storia per aver servito a Gianni Rivera il famoso assist del 4-3, nei tempi supplementari della semifinale mondiale del ’70 contro la Germania Ovest (distinzione geopolitica ben chiara per chi è cresciuto all’epoca della guerra fredda e che oggi già sembra archeologia per un ventenne).
Per un tifoso dell’Inter , Boninsegna è colui che fu bomber scudettato e più volte capocannoniere, in sette lunghe stagioni; per un bianconero, un attaccante che anche dopo i trent’anni non fece mancare i propri gol in due scudetti e una Coppa Uefa.
Eppure sono questi ricordi tramandati, comunque giungano a noi oggi, in un’epoca che consente di informarci su tutto il calcio che fu, ma di rivederne rapidamente soltanto brevi filmati, a creare quegli agganci emozionali tra diverse generazioni che confluiscono in un piccolo linguaggio di episodi comuni.

Piccoli eroi di una storia minore, quella materiale e nazionalpopolare degli eventi mediatici condivisi, che attraversano il quotidiano mentre cambiano le colonne sonore, da Lucio Battisti di una volta alle stelline da talent show di oggi, dalle trasmissioni televisive di Corrado alle domeniche su Sky di Ilaria D’Amico, in un alternarsi di costumi sociali ed estetiche 2.0 che di padre in figlio, nemmeno te ne accorgi, e scorrono come domeniche di fine stagione, un gol all’Ascoli ed uno al Chievo e intanto cambiano i centravanti, quello di oggi la butta dentro, come fa Giuseppe Rossi, nell’anno della consacrazione, mentre quello che fino a ieri i suoi gol li festeggiava volando come un aeroplanino, siede in panchina a godersi la scena. Così, come le ciliegie, un ricordo tira l’altro e le generazioni si parlano.
Almeno, laddove il calcio è vissuto in una dimensione familiare ed amichevole, con provata intensità emotiva ma senza drammi da appartenenza parareligiosa o immedesimazione simbiotica con destini fideistici.

Ben diverso quanto accaduto a Salerno, in occasione della vicenda, ormai già raccontata e commentata di Salernitana – Nocerina. In breve, la squadra ospite, subendo le pressioni della propria tifoseria alla quale era stata vietata la trasferta, si è sottratta alla partita, improvvisando sostituzioni e simulando infortuni, fino ad autoprovocarsi, in venti minuti, la sconfitta per mancanza di numero minimo di giocatori in campo. Atto messo in scena, con la dovuta retorica teatrale e mimica infermieristica. Una performance triste, da dimenticare in fretta.

Situazioni estreme in cui ogni addetto ai lavori viene coinvolto a dire la propria, dai veterani del calcio giocato, ai giornalisti delle testate nazionali – stampate, radiofoniche e televisive – fino ai prefetti e ai tutori dell’ordine. Ognuno con un saggio consiglio in tasca, un sincero dispiacere da dimostrare e qualche colpa da distribuire, spesso nel mucchio. Ma, probabilmente, nessuno con un’idea ben precisa di come affrontare una situazione che, prima ancora che calcistica, si connota come sociale ed istituzionale. Il calcio, soprattutto fuori dai circuiti mediatici della serie A e dei palcoscenici votati all’Europa (ma senza assolutamente escluderli, basterebbe ricordare gli episodi che coinvolsero il Genoa o anche Italia – Serbia) non è più capace di bastare a se stesso, smarrito dietro a rivalità medioevali e a derive identitarie, drappeggiate da fierezze territoriali.
Eppure un tempo, si sarebbe detto che a salvare il futuro del pallone, sarebbe bastato un gesto tecnico, una prodezza, magari una rovesciata di Boninsegna, da raccontare ai figli. “Quella volta che la partita fu sospesa…” non ha lo stesso fascino.