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L’ultimo a varare un codice etico è stato Allegri. Come se al Milan ci fosse carenza di rigore, verrebbe da ironizzare. Prima di lui, l’allenatore dell’Italia, Prandelli. Salvo derogare in caso di necessità superiore, quando le contingenze tecniche richiedono la presenza in campo di Balotelli.

Più severa fu la linea adottata tanti anni fa da Enzo Bearzot, quando durante una tournè americana non fece sconti al diciannovenne Roberto Mancini, reo di essere scappato dal ritiro, affascinato dalle lusinghe della notte newyorkese. “L’indomani mattina quando me lo sono trovato davanti, gli ho detto con durezza che il responsabile nei confronti della sua famiglia e della società che me lo aveva affidato ero io. E non ero più disposto a correre rischi del genere. Perché se gli fosse successo qualcosa mi sarei trascinato il rimorso per tutta la vita”. Altri tempi, altri uomini. Un approccio differente, meno diretto a forgiare esempi etici per gli spettatori, più incentrato su un rapporto del tipo padre – figlio. Mancini non rientrò più nel giro di quella Nazionale e sebbene partecipò ai mondiali messicani, non mise mai piede in campo.
Del resto, neanche Allegri da calciatore ha avuto fama di essere un tipetto tranquillo.

Delle prodezze comportamentali dei calciatori, ci ha raccontato in più libri Carlo Petrini, ex giocatore degli anni ’70 di Milan e Roma, uno che si trovava sempre in prima linea quando si trattava di organizzare bagordi. Storie di corna allegramente consumate con le mogli dei compagni di squadra, di trasferte svedesi svolte all’insegna dei miti boccacceschi che accompagnavano la fama libertina del mondo scandinavo in quegli anni e in generale una diffusa sensazione di insofferenza alle regole, costantemente camuffata da un perbenismo d’occasione.

E che dire della Lazio che vinse lo scudetto negli anni ’70? Molte le storie orbitanti intorno a quella squadra, dai giocatori che dormivano con la pistola sul comodino, dopo aver fatto il tirassegno con i lampioni, alle risse all’interno dello spogliatoio, un ambientino non certo per educande.
Non troppo tempo fa, due ex calciatori stranieri passati per il nostro campionato, Almeyda e Van der Meyde, hanno pubblicato le loro cosiddette “biografie-choc”, dove non mancavano sesso, droga, rum e, nel caso dell’olandese, perfino i cammelli.

A Roma, non c’è praticamente un giocatore passato negli anni del terzo scudetto, sul quale non circoli qualche leggenda metropolitana, che parla di sesso, auto lanciate a bomba sul grande raccordo anulare e litri di alcol ingerito. Dal giovane Totti a Candela, da Zebina a Wome, quasi tutti venivano preceduti all’ingresso in campo domenicale da un vociferare di prodezze infrasettimanali. Vai poi a vedere quanto c’era di vero, ma in giro è pieno di testimoni oculari (o quanto meno loro cugini) che su quegli episodi giurerebbero come Muzio Scevola. E probabilmente, lo stesso Balotelli, per quanto sia una testa calda, è un vero atleta, se paragonato alle follie di Cassano, negli anni di Roma e Madrid (del resto, ci ha scritto anche un libro).

Non che a Milano, Torino o perfino a Parma (le memorie delle gesta di Crippa ancora circolano sul web) si fosse da meno intendiamoci. Dalle discoteche ai solarium, i luoghi del peccato preferiti dagli eroi del pallone sono stati vari e mutevoli, stando alle cronache.

Ma si perdono nel tempo e nel mondo le storie di calciatori dispersi tra i fumi della taverna dei sette peccati, come Jose Leandro Andrade, stella dell’Uruguay olimpico e mondiale degli anni ’30, che durante le olimpiadi del ’24 a Parigi, si innamorò perdutamente della ballerina e cantante Josephine Baker e fuggì dal ritiro, fino alle storie riguardanti El Magico Gonzàlez, fuoriclasse salvadoregno degli anni ’80, che Maradona inseriva tra i migliori dieci di ogni epoca e lo accostava tecnicamente a sè (chi ne ha visto i video, ne è rimasto folgorato). Uno capace di bruciare le proprie possibilità di carriera al Barcellona, quando durante una tournè cui era aggregato, non lasciò l’albergo durante un allarme anti-incendio perché troppo impegnato in dolce compagnia. Il suo pensiero limpido e sincero è tutto in queste frasi: “Riconosco che non sono un santo, che mi piace la notte e che la voglia di far baldoria non me la leva neanche mia madre … Gioco solamente per divertirmi.”
Tornando al presente e volando oltremanica, all’inglese Barton, più noto come twitstar della premier che come centrocampista, per descrivere la situazione dei suoi colleghi più illustri è bastato un cinguettio: “La nazionale inglese fa schifo, i calciatori giocano solo per avere la macchina lussuosa e la ragazza della ‘pag. 3’ dei tabloid”. Non che anni fa fosse differente, per chi ricorda alcune foto di Paul Ince intento a consumare il rituale alcolico della “sedia del dentista” durante una partita ad Hong Kong.
Ai grandi calciatori tedeschi che persero contro l’Italia nell’82, si legano invece storie di carte e gioco d’azzardo, come raccontò il portiere Schumacher, in una autobiografia.

Insomma, gli esempi sono così tanti che si potrebbero attraversare cinque continenti e cento anni di storia. E questo può farci venire un dubbio: ma è davvero ai calciatori, che dobbiamo chiedere un codice etico?