Il potere di centomila mani

Che la polemica sulla discriminazione territoriale (per gli amici razzismo) torni di moda negli stadi nella stessa settimana in cui abbiamo assistito al giro di valzer della politica sul reato di clandestinità, è una coincidenza che può pure dare da pensare. Che il luogo della polemica sia stato proprio San Siro, sponda Milan, significa forse che gli dei hanno un gran senso dell’umorismo.

Sembra passato solo qualche giorno, in effetti, da quando Boateng abbandonava il campo coi nervi a fior di pelle per aver ricevuto dei pessimi “buu” in quel di Busto Arsizio (notorio covo di facinorosi), emulato poi da Muntari che combinava un vero casino con la Roma per motivi simili. Muntari, lo stesso che non si era presentato due volte su due a una convocazione in tribunale per testimoniare proprio sull’attacco razzista di Busto, arrivando a essere sanzionato dalla corte per 500 euro (vale a dire lo stipendio di venti minuti).

La sola parola razzismo, in effetti, genera istantaneamente due vettori che rapidissimi si abbattono sulle reazioni di chi l’ascolta. Il primo si compone di pura rabbia, viaggia assai veloce e lascia una solida scia d’indignazione sotto di sé. Il secondo è invece un po’ più lento. È costituito da buonsenso e ha un unico grande difetto: arriva sempre in ritardo.

Ma che cos’è esattamente il razzismo? Dove alloggia, come si dipinge, come lo spieghereste a un bambino? A essere meno ipocriti possibile bisognerebbe intanto ammettere che il razzismo è tutt’intorno a noi. Concetto forte, triste se vogliamo, ma quantomeno onesto. L’uomo da sempre suddivide la società in mondi sempre più piccoli, e l’invenzione dei confini non è certo dei giorni nostri ma è vecchia almeno quanto l’umanità. E dato che di atavico abbiamo anche la paura di tutto ciò che non conosciamo, di tutto quello che è diverso, dentro qualsiasi uomo – dal più becero al più illuminato – arderà sempre una piccola maledetta fiamma che lo porterà a guardare e riconoscere un confine, catalogando così la gente che aldilà, o aldiquà, vi risiede.

Il sospetto, figlio di quest’atavica paura, è il fumo generato da questa fiamma. E si posa ovunque: in guerra, come in uno stadio, fino al pianerottolo di casa propria, dove – fra mura spesse pochi centimetri – si srotolano nel silenzio vite lontanissime, mondi che quando va bene convivono nella totale indifferenza. E che quando va meno bene, semplicemente, si odiano.

Detto questo, però, è giusto far presente come esista anche un’altra fiamma: quella della fratellanza, che è un concetto atavico almeno quanto il suo antagonista. Il fumo di questa fiamma è la cultura: è la sete di conoscenza, quella che spinse Ulisse a varcare le soglie del mondo conosciuto pur di capire. E anche questa forza è innata in ognuno di noi, chi più chi meno.

Per questo motivo, negare che il razzismo esista punendolo, o peggio tentando di gettarlo sotto il tappeto, è una reazione figlia solamente della rabbia e dell’indignazione, ma per nulla assennata e molto poco lungimirante. Si possono fare migliaia di considerazioni sull’errore di chi ha deciso che San Siro andasse chiuso: il primo è che non puoi punire centomila persone perché cento di esse hanno sbagliato. Il secondo è che non è poi così furbo dare a tifosi (o presunti tali) la possibilità futura di far chiudere uno stadio a comando. Il terzo, non meno importante degli altri, è che la libertà di espressione – piaccia o no – è sacra almeno quanto lo è la fratellanza, concetto questo che è in tutto il mondo il vero grande problema del nostro tempo.

In una società giusta, in una società in cui vale la pena di vivere, quello striscione infame può sventolare in uno stadio. Anzi: DEVE sventolare. Per ricordare a tutti che l’ignoranza esiste: ha un nome e un cognome, una vita, un mestiere. E scrive striscioni che inneggiano alla strage di un popolo (nemmeno tanto) straniero.

In una società giusta, in cui vale la pena di vivere, un bambino che segue la propria squadra del cuore con gli occhi sgranati e l’amore (quello vero) per ciò che guarda, DEVE guardare dritto in faccia quella frase. Interrogarsi con tutta la propria innocenza su cosa quel concetto rappresenti. E chiedersi perché quel concetto sia stato espresso. Per imparare, un giorno, ad affrontarlo con saggezza. E con umanità.

Perché il razzismo non verrà mai sconfitto negando la libertà di esprimerlo o punendo chi lo genera. La censura non è mai la soluzione di un problema, ma è sempre l’opposto: è la dimostrazione che a quel problema non s’è trovata una soluzione, e che l’unica alternativa è nasconderlo, far finta che non esista. Così, il razzismo non verrà mai debellato punendo il calcio perché cento imbecilli hanno immortalato con il pennarello un’idea imbecille. Domani ci sarà un’altra partita: quello striscione non verrà più mostrato, ma chi l’ha creato non sarà certo guarito dalla propria ignoranza e continuerà a pensarla allo stesso identico modo. Il concetto resta: il fatto che non si veda, non vuol dire che non ci sia, ma solo che nessuno può individuarlo e disprezzarlo.

E forse, un giorno, un giocatore di colore verrà attaccato dai buu razzisti di cento ignoranti e continuerà a giocare con rinnovato amore per questo sport, perché proprio in quel momento l’applauso di centomila mani sommergerà nel disprezzo quei cori. Sarà quello, il giorno in cui il razzismo avrà perso veramente.

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Gaetano Allegra