Zona NBA #1 – La compagnia dell’anello

Per essere un campione, spesso, basta soltanto avere talento. Quello te lo dona Madre Natura, non c’è nulla da fare: in molti provano a compensare questa mancanza con l’allenamento, ma i più grandi di questo sport hanno sempre avuto quel qualcosa in più che li ha fatti emergere.
Quello che conta davvero in NBA, però, è vincere. Vincere un anello per se stessi e il Larry O’Brien Trophy per la propria squadra: un sogno per la maggior parte dei giocatori americani ed europei, dato che poter sfoggiare l’argenteria che conta è un pregio che in pochi hanno potuto vivere da protagonisti. Escludendo infatti i comprimari, cioè quei giocatori che hanno contribuito poco o nulla alle sorti della propria squadra (almeno sul campo), chi è stato davvero decisivo può essere considerato un marziano.

Dirk Nowitzki ha vinto il titolo NBA nel 2011

Lo sport americano è pieno di storie affascinanti, in cui atleti mediocri riescono a elevare il proprio gioco per qualche mese, riuscendo a coronare il proprio sogno. La verità, però, è che non ce l’avrebbero mai fatta senza un vincente al loro fianco: essere vincenti è un concetto completamente diverso da quello di campione, perché nel primo caso le abilità tecniche passano in secondo piano. Serve cuore, grinta e soprattutto testa, tanta testa. Fare la rotazione difensiva giusta che porta l’inerzia della partita dalla propria parte, l’extra-pass che libera il compagno nell’angolo oppure la rubata direttamente dalla rimessa avversaria.
Tyson Chandler si è rivelato decisivo nella vittoria dei Dallas Mavericks nel 2011, e neppure lui si giudicherebbe un mostro dal punto di vista tecnico; eppure ha letteralmente oscurato il canestro a Lebron James e compagni, ma non ce l’avrebbe mai fatta se al suo fianco non avesse avuto Dirk Nowitzki. Lui apriva gli spazi in attacco, lui lo serviva nel posto giusto al momento giusto, lui faceva la differenza quando il pallone assumeva un peso specifico notevole.

Un altro esempio? Lebron James, neanche a dirlo. Nelle ultime Finals ha trainato da solo una squadra priva del miglior Wade (protagonista solo in gara 7) e con un ridimensionato Bosh: il primo vittima di un infortunio al ginocchio, il secondo dell’eccessiva pressione sui Miami Heat. Il numero #6 originario di Akron ha compiuto il definitivo salto di qualità nelle ultime stagioni, quando ha smesso di isolarsi nei finali di partita. E’ diventato un vincente, mentre prima era solo un campione. E con il suo atteggiamento ha spronato staff e compagni a fare meglio: non credo di esagerare dicendo che, senza Ray Allen, probabilmente staremmo parlando di Tony Parker MVP delle Finals, e San Antonio Spurs campioni del mondo.

Kobe Bryant con il Larry O’Brien Trophy

Prima di lui nell’impresa era riuscito Kobe Bryant, passato dall’essere spalla nel famoso three-peat con Shaquille O’Neal, a protagonista assoluto delle vittorie nel 2009 e nel 2010. Trevor Ariza, Shannon Brown, Sasha Vujacic: tre nomi che il Mamba conosce bene, atleti che al fianco del #24 hanno sfoggiato giocate di alta classe, senza però continuare a esibirle una volta esiliati da Los Angeles. Non può essere un caso, semplicemente è più facile giocare a basket se vicino a te hai uno come Kobe Bryant: i motivi tecnici li ho esplicati prima parlando di Nowitzki, ma in questo caso entra in gioco la componente emotiva, dato che stiamo parlando di un leader carismatico senza precedenti (o quasi). Un vincente che prima di tutto è un grande professionista; non è da tutti terminare una partita di serie finale e puntare la sveglia alle cinque della mattina successiva. Per andare dove, direte voi? Ovviamente in palestra, ad allenarsi. Perché nessuno poteva essere migliore di lui.

Kobe Bryant non ci sarà all’inizio di questa stagione, rientrerà forse a dicembre: nel frattempo è scattata la preseason, e la curiosità è già alle stelle. Chi vincerà la regular season? Ma soprattutto, chi può davvero contendere il trono a Lebron James e i Miami Heat? Da italiani non possiamo non sperare che siano i New York Knicks di Andrea Bargnani o i San Antonio Spurs di Marco Belinelli: discorso diverso invece per Gallinari, visto che i Denver Nuggets sulla carta hanno una squadra più debole dell’anno scorso, mentre per i Detroit Pistons di Datome sarà già importante riuscire a qualificarsi per i playoff. Detto questo, il campo conta più di qualsiasi analisi teorica: e sul campo si gioca per vincere l’anello, sempre.

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Zona NBA #0 – L’antefatto e il numero zero