Non voglio certo sparare sulla crocerossa, e tantomeno emettere sentenze: non sta a me (e non sta agli organi di informazione, in generale, quando se ne ricordano). Questo però non significa che non ci si possa egualmente sbilanciare: perché a volte bisogna prendere posizione; se non pro o contro qualcuno, allora in favore o in opposizione a un certo tipo di sistema.
E il sistema in questione si chiama “giustizia sportiva”. E, più in generale, si tratta di parlare di giustizia — absit injuria verbis: parlarne è diventato una clava politica, e sappiamo bene come e quante e quali siano le connessioni, per dire, tra Palazzo Madama e il Palazzo (sia esso Lega, Federazione o che). Ci sarebbero gli estremi per pensare al complotto linguistico, visto il nome del procuratore federale (lo ricordo ai disattenti: Stefano Palazzi).
Perché siamo fatti così: sempre a guardare al proprio orticello, sempre convinti che, anche quando agiamo male, paghiamo soltanto perché Qualcuno (chiunque sia) ha voluto che proprio noi, nel marasma del malcostume, dovessimo fungere da capro espiatorio. Insomma, uno dei luoghi comuni di questo paese (insieme a «secondo me è stato il marito»).
Come dicevo, non si discute del merito, perché spetta ad altri; e pertanto ogni tentativo di difesa è ammissibile (finché si rimane nell’alveo del lecito). Non stupisce che Stefano Mauri, dopo aver preso sei mesi in primo grado, di fronte ai nove mesi dell’appello abbia deciso di ricorrere al TNAS. È perfettamente legittimo, nei diritti di chi deve difendersi. Così come è diritto di chiunque proclamarsi innocente (salvo dover pagare comunque le conseguenze di una sentenza definitiva).
Ma il punto non è questo, anche se finisce per diventarlo (sotto la spinta del fatto che la comunicazione viene usata anche per svuotare i fatti). Il punto è che la giustizia sportiva ha una sua specificità, così come ce l’ha quella ordinaria. E cose illecite nell’una sono perfettamente normali nell’altra: una pedata a un passante è un reato, ma sul rettangolo verde (purché involontaria) non sconvolge nessuno; e nella giustizia sportiva bisogna (bisognerebbe?) essere specchiati, perché a far cadere la sportività è sufficiente tentare di falsare i risultati. (Avremmo dovuto impararlo già ai tempi di Calciopoli, ma fa niente.)
Quindi: se pure ci sono larghi punti di convergenza (come evidenziato in estate da Roberto Di Martino, pubblico ministero di Cremona) siamo di fronte a eventi che hanno rilevanza differente a seconda del contesto. Un’amicizia sbagliata conta in maniera diversa, per restare sul pezzo: se sei un calciatore, e sai le malefatte di uno scippatore, la giustizia sportiva non avrà da dire (quella ordinaria, si spera, sì).
Inutile dire che, nel Paese dei Campanili, la legge si applica al nemico e si interpreta per l’amico. E probabilmente vale anche trasversalmente ai due àmbiti: ordinario e sportivo. Ma è curioso che a fare tutto questo non siano tanto i giudici o gli imputati, quanto i tifosi stessi: come la maggioranza degli italiani quando abbiamo votato contro l’energia atomica, improvvisamente siamo diventati un paese di ingegneri nucleari. Ad maiora.