Zona NBA #0 – L’antefatto e il numero zero
C’è sempre una spiegazione per tutto, nel basket e nella vita. Spiegare cosa accade su un campo di pallacanestro, però, è molto più semplice: ed è quello che questa rubrica si propone di fare. Uno spazio che vi permetta di comprendere ciò che accade in settimana ad altre latitudini, uno spazio in cui assaporare aneddoti e storie da brividi; uno spazio che vi faccia amare lo sport più di quanto già fate adesso. Esplorare un mondo tanto lontano quanto affascinante, la terra natale della palla a spicchi: mi riferisco, ovviamente, agli Stati Uniti d’America. Il paese più ambiguo e discusso al Mondo, però, trova nell’NBA il suo paradiso virtuale, quel posto in cui anche i più cattivi, temibili e arroganti Bad Boy riescono a diventare gregari pronti al servizio della squadra. A volte.
Chiunque abbia fatto la storia di questo sport, però, all’inizio è stato trattato come una matricola. Un rookie, per l’appunto, deve compiere tutto ciò che i veterani non hanno voglia di fare: ovviamente si tratta di compiti denigranti e spesso umilianti, come portare le ciambelle ai compagni di squadra agli allenamenti, porgere le borracce e, a volte, addirittura lavare le divise d’allenamento altrui. Farsi le ossa, nel basket e nella vita, è tutto o quasi: per saperne di più sulla gavetta, inoltre, vi consigliamo di citofonare a casa Marco Belinelli, oggi guardia dei San Antonio Spurs, che per trovare serenità mentale e fisica ha dovuto attendere molti anni di purgatorio tra East e West coast. Ai tempi dei Toronto Raptors, quando era compagno di squadra dell’altro italiano Andrea Bargnani, Marco ha indossato la maglia numero #0: doveva ripartire proprio da zero dopo la brutta esperienza a San Francisco, dove passò molto tempo in panchina, ma quel numero non gli ha portato molta fortuna. O almeno non subito, perché invece oggi è una delle guardie NBA più stimate da compagni e allenatori, tanto che una leggenda vivente come Gregg Popovich lo ha fortemente voluto nella sua squadra, nonostante l’interessamento di molte altre franchigie sparse per l’America.
Oggi ha l’opportunità di giocarsi il titolo, quello che Gilbert Arenas non è mai riuscito a conquistare; lui è stato il precursore del numero #0, l’emblema dei sacrifici e della gavetta. Non capita a tutti di diventare stella NBA dopo essere stato scelto come numero 30 al draft: anzi, Gilberto ha fatto scuola e, oggi, è il modello a cui tutte le giovani seconde linee fanno riferimento per ritagliarsi uno spazio importante all’interno di questa lega.
La speranza, però, è che questi giovani cerchino di imitare soltanto i comportamenti in campo del campione originario di Tampa: senza la palla a spicchi tra le mani, infatti, Arenas ha combinato più guai che altro, ma quello che ha inciso maggiormente nella sua vita è stato farsi trovare in possesso di armi da fuoco all’interno dello spogliatoio. Doveva essere soltanto uno scherzo tra compagni per Gilbert, ma gli costò di fatto la carriera. Non formalmente, dato che fu squalificato solo per il resto della stagione, ma Arenas non riuscì più a rialzarsi dopo quell’evento.
L’NBA è il posto in cui tutti hanno una possibilità, a patto che si posseggano qualità interessanti e determinanti nel rettangolo di gioco: quella stessa opportunità, però, ti può essere negata al primo errore, e passare dalle stelle alle stalle è un lampo. Più o meno lo stesso tempo che Arenas impiegava a battere dal palleggio il proprio avversario con un crossover: il talento da solo non basta, serve che il cervello lo gestisca nella maniera adeguata. Proprio come nella vita di tutti i giorni, appunto: ma questo paragone, ormai, è quasi superfluo da tirare in causa.