Portare rispetto all’ arbitro è una questione di educazione, oltre che di rispetto del regolamento. Stabiliamo questo punto fermo e andiamo avanti. E vediamo fino a che punto è possibile mettere in discussione il dogma dell’infallibilità dell’arbitro.
Nefasto fu il giorno in cui Francesco Totti mandò platealmente a quel paese l’arbitro Rizzoli e lo sventurato non rispose (Udinese-Roma, 13 aprile 2008). Da allora, ogni volta che una moviola evidenzi al pubblico un labiale galeotto ma non sanzionato, parte pronta la tiritèra sul doppiopesismo arbitrale, si cita il precedente e si invoca l’uniformità di sanzione, la repressione dell’oscenità e la gogna del colpevole. Per la cronaca, nell’occasione Totti non stava contestando una decisione dell’arbitro, ma ce l’aveva con lui per essersi maldestramente frapposto sulla traiettoria di gioco, interrompendo il momento agonistico. Il secondo nome ad essere citato, solitamente è quello di Balotelli, un altro facile al battibecco arbitrale (“Di botte ne prendo tante, vorrei che mi spiegassero perché non fischiano” è in sintesi la tesi autodifensiva del centravanti della Nazionale). Altri esempi illustri, la mancata sanzione per Lichtsteiner, artefice di ingiuriose proteste rivolte all’arbitro, durante la finale di supercoppa italiana 2012 contro il Napoli (furono invece sanzionati, gli insulti di Pandev) ed ultimo della lista, il caso Pizarro, con corollario Montella, di fresca attualità.
“Ca..o fai?” avrebbe detto Pizarro a De Marco, dopo la mancata assegnazione di un rigore, ai più apparso netto. La reazione non si è fatta attendere: rosso diretto, squadra in dieci, giocatore poi squalificato per due giornate. E all’allenatore Montella, uomo che da quando siede in panchina si è sempre distinto per lucidità, correttezza e signorilità, per aver chiesto spiegazioni educatamente, è stata comminata una sanzione di cinquemila euro, con nota di biasimo da parte di Braschi. Così è se vi pare.
Eppure, c’è un filo che lega Pizarro e Totti, Montella e Balotelli: ciascuno, con modalità differenti – figlie anche del proprio livello culturale – ha espresso il proprio disappunto, trattando da pari a pari l’autorità arbitrale, vuoi per sfogarsi, come Totti, vuoi per un senso di frustrazione che ha radici in episodi collaterali e recenti, come i due della Fiorentina.
Sarebbe facile rispondere, “la regola c’è, basta rispettarla”. Ma a questo punto, applicandola burocraticamente, ad ogni gesto ritenuto diseducativo (da uno sputo ad una bestemmia, da una parolaccia scappata per uno stop sbagliato ad una irrispettosa occhiataccia all’arbitro), zac, cartellino rosso e poco importa che le partite non si giochino più in undici contro undici. Chissà se davvero il pubblico preferisce vedere uno spettacolo di educazione civica vagamente bacchettona o quello di una partita combattuta ad armi pari, con intensità agonistica, magari sorvolando su qualche sfondone detto a caldo .
Di moralismo spicciolo son piene le valli, probabilmente noi stessi ne siamo portatori sani per quanto più ci tocca da vicino, ciascuno a rincorrere le proprie velleità di giustizia, in un Paese che spesso ne fa sentire la mancanza. L’altra faccia del moralismo sanzionatorio è il moralismo dal volto umano, quando dagli stessi calciatori da cui esigiamo un controllo epicureo delle passioni in campo, pretendiamo, in virtù dei loro compensi e della loro esposizione mediatica, che entrino in campo facendosi portabandiera di iniziative nobili, commemorino coi loro minuti di silenzio fatti di cronaca, rivolgano appelli educativi e invitino ad aderire a sottoscrizioni benefiche (con buona pace della coscienza istituzionale, che magari così copre le proprie lacune strutturali). Forse un po’ troppo schizofrenico come complesso di richieste, rivolte a ragazzi di ventanni o giù di lì. Forse sarebbe anche ora che le istituzioni, nei propri settori di competenza riavocassero a sé tali funzioni etiche, lasciando i calciatori a fare il proprio mestiere, nel contesto agonistico che gli è proprio. E magari i media limitino l’esegesi scandalistica dei labiali o la loro riproposizone in chiave tribunalizia ad libitum presso opinionisti improvvisatisi filosofi, alla ricerca del fondamento kantiano dell’agire morale.
Concetto Lo Bello, storico arbitro degli anni ’60 e ’70, incarnava un’autorità che sapeva sostanziarsi anche di un carisma personale tale da imporsi ai giocatori. I calciatori stessi, ne riconoscevano il valore, pur trovandosi spesso in disaccordo. Come lui, poi Agnolin. Non così i De Marco (o chi di turno) di oggi, che danno la sensazione di trincerarsi più dietro un autoritarismo alla “lei non sa chi sono io” che dietro un riconoscimento condiviso e percepito della propria capacità.
Dal ’68 ad oggi, le autorità non sono più indiscutibili, il paternalismo non è più l’unico modo di guardare il mondo né può esserlo per stabilire gerarchie in campo. Un principio di responsabilità individuale e partecipata faticosamente tenta di emergere e anche agli arbitri, in fondo, il calcio sta chiedendo di uscire dalla loro torre d’avorio, per fugare ogni dubbio sul loro agire.
Venissero di tanto in tanto a parlare col mondo, spiegassero a Balotelli le loro decisioni e magari allo stesso tempo, gli chiedessero pubblicamente di reggersi un po’ di più in piedi. Rispondessero a Montella, allontanando da tutti il dubbio di favoritismi. Magari talvolta, ammettessero degli errori. Manterrebbero comunque il potere discrezionale sulle decisioni da prendere – l’alternativa, come detto, è la burocrazia – ma potremmo fidarci di più.
E al sistema disciplinare cortesemente, chiediamo di sanzionare il gioco violento, le furbizie sleali, i comportamenti antisportivi e – ovviamente – anche le ingiurie personali (tra quelli sopracitati, è il caso Lichtsteiner). Ma un po’ di comprensione – in mancanza di un cartellino “arancione” o magari di una sospensione a tempo – per il momento agonistico, per la parola che non costituisce offesa diretta, non sarebbe in sé un danno. Anzi, si compierebbe la parificazione della tutela dell’arbitro – istituzione e di quella del calciatore – tenuto al rispetto delle regole e dei principi. Un segno di uguaglianza. E, a pensarci, di giustizia, che è sempre bidirezionale.