Ticket to ride

Pais tropical, aspettaci. E figuriamoci se mancava proprio l’Italia, alla competizione mondiale variopinta che ci attende quest’estate a Copacabana e dintorni. Ok, l’ultima volta non eravamo stati proprio l’anima della festa, ma scontavamo un debito di riconoscenza verso gli eroi del 2006 e a Lippi era mancato il cuore di prepensionarli alla vigilia. Successe lo stesso, o appena un po’ meglio, anche a Bearzot in Messico ‘86.
Con due giornate d’anticipo, gli azzurri di Prandelli staccano il biglietto, stabilendo un record di precocità che suona quasi come un atto dovuto, dopo la deludente apparizione in Sudafrica. Già perché il nastro va ripreso da qui, dalla clamorosa estromissione con l’umiliazione dell’ultimo posto nel girone F, dietro Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia. Perché, tutto quello che c’è stato in mezzo, Europeo, Confederations, qualificazioni ed amichevoli non erano altro che un ponte verso il Brasile, in un’ansia di resurrezione calcistica che ora può sostanziarsi di fronte al pubblico più bello del mondo, nella manifestazione regina del calendario sportivo quadriennale.
Dal giorno del 3-2 subito contro la Slovacchia, all’attuale 2-1 strappato alla Repubblica Ceca, l’Italia chiude il cerchio contro gli altri eredi di Masopust e Panenka e riparte. Con un biglietto, per correre.

La Nazionale di Prandelli ha ormai sedimentato le proprie caratteristiche. Possiede un dna globale, potendo contare su Balotelli, El Shaarawy, Ogbonna, Thiago Motta e Osvaldo. Conserva traccia senatoria dell’ultimo successo mondiale in Buffon, Barzagli, De Rossi, Pirlo e Gilardino, campioni passati dalle stelle di Berlino alla polvere di Johannesburg e pertanto più degli altri animati da una pulsione di riscatto. Con loro, giocatori nel mezzo del cammin di lor carriera, come Chiellini e Montolivo, che dovranno definitivamente scegliere da che parte della labile reminiscenza calcistica stare, se in quella maggioritaria dei decoubertiniani di passaggio o in quella minoritaria dei memorabili di lungo periodo. A completamento del profilo costituzionale dell’organico azzurro, possiamo individuare il “blocco Juve”, con diversi dei suddetti, più Bonucci e Giaccherini (seppure fresco ex). Quest’ultima connotazione è un tratto irrinunciabile della concezione prandelliana, formatosi come calciatore nel mito del gruppo compatto e rispettoso delle gerarchie alla scuola juventina di Giovanni Trapattoni, suo ex allenatore e maestro, cui ha reso omaggio ai microfoni della Rai, pochi attimi dopo il recente successo contro la Bulgaria.

Non esprimiamo un calcio brillante, se è vero che abbiamo dovuto subire anche contro la modesta Repubblica Ceca che un tempo fu di Nedved e oggi era di Kozak, gigante spigoloso, erede di Koller nei movimenti marmorei eppure talvolta efficaci. E anche in Brasile dovremmo abituarci alla cantilena che ci vuole sempre stretti a coorte, pronti a tirar fuori il meglio di fronte alle difficoltà, ma piuttosto vaghi nella gestione della quotidianità. Per noi, Kozak può diventare Neymar o Messi: magari questi ultimi li annientiamo in marcatura come Gentile con Zico e Maradona, ma di fronte ad un Kozak rimaniamo distratti a contemplare l’attimo appena fuggito, dispersi sui margini della fascia come terzini dopo un cambio di campo di Montolivo.

A Prandelli, per quanto bravo sia stato sinora, chiediamo pertanto di lasciarci godere il soggiorno brasiliano, le birre davanti alla tv, le rimpatriate con gli amici, i televisori in alta definizione, i commenti di sessanta milioni di commissari tecnici e quegli attimi di piccola gioia che ci aspettiamo dal calcio. Se ci sarà a fine campionato qualche giovane da inserire, lo faccia, non ci riproponga senatori bolliti, per mero vincolo di sodalizio. Tenga conto che farà un caldo micidiale, non ci porti fenomeni spompati. E quando incontreremo una Nuova Zelanda, vabbè che il movimento calcistico è in crescita ovunque, ma cerchiamo per quanto possibile di asfaltarli gioiosamente. Ok alle distanze tra i reparti, ma se fosse possibile vedere anche qualche dribbling a ridosso dell’area, non ci dispiacerebbe. A Prandelli e agli azzurri chiediamo fin da ora di tenerci alto il livello emozionale durante il mondiale. Mai più come in Sudafrica. Non inventiamoci altri Kozak.

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Paolo Chichierchia