BARCELLONA – Cori, tamburi, bandiere e tantissima gente per le strade. No, non si festeggia una vittoria importante di chissà quale trofeo del Barça. Questa è una storia diversa, un motivo (tra i tanti) per dichiarare la propria identità nazionale: oggi è la Diada Nacional de Catalunya e per le strade di Barcellona si respira un’atmosfera magica.
Un fatto storico che ha sancito la fine di una delle democrazie più antiche dell’epoca, inglobata da una storia che gli appartiene solo a metà. Per non parlare delle restrizioni linguistiche avvenute due secoli dopo con Francisco Franco. Come un continuo tentativo di annacquare e dissolvere le culture di queste terre che invece hanno resistito testardamente. C’è da dire però che la voglia di indipendenza poche volte si è manifestata con atti pratici. Svariati sono stati i tentativi di referendum falliti per la poca partecipazione della popolazione, una popolazione che invece in piazza ci scende eccome.
Nella giornata di oggi, per esempio, è stata organizzata una “Via Catalana” che ha dell’incredibile. Una catena umana che percorrerà la Catalunya da nord a sud. Un percorso stabilito che collegherà migliaia di catalani uniti per mano (sono previsti più di 400.000 partecipanti). A difesa di un’identità, di una filosofia che spesso però può diventare schiavitù.
Lungi da me affermare che i catalani non abbiano buoni motivi per crederci, né voglio fare prediche e paragoni assurdi con un pensiero-politico-marcio nostrano. Ma tutto ciò mi sembra anacronistico, quasi a formare una spirale da cui se ne può uscire solo con dei cambiamenti.
Prendo l’esempio delle recenti dichiarazioni di Gerard Piqué, mica un catalano qualunque. Certo sono due storie diverse, ma talmente intrecciate tra loro che mi pare quasi scontato trovare delle similitudini.
Le varianti – Tra le righe del settimanale ExtraTime esce fuori un quadro che più o meno ci eravamo immaginati. Un Barcellona stanco e schiavo di quel possesso palla asfissiante, noioso e ultimamente anche scontato che tanti trofei ha portato nella bacheca del Camp Nou.
“Quando ci pressano, fare un paio di lanci lunghi non è negativo, serve per cambiare gioco, ossigenare, evitare che ci schiaccino e ci lascino senza uscita. Abbiamo ricominciato a pressare molto alto, a recuperare la palla nella trequarti avversaria e da lì è molto più facile creare occasioni che non iniziare da dietro, soprattutto contro squadre che si chiudono tanto. È normale provare a sviluppare nuove idee, variazioni sul tema: dopo tanti anni gli avversari ovviamente sanno come attacchi, come ti muovi. Prendi Alves e Alba: spingono tanto e alcuni avversari ci lasciavano le fasce chiudendosi in mezzo. Diventava difficile entrare. Bisognava trovare soluzioni alternative e il Tata lo sta facendo senza intaccare il nostro stile: il possesso è sempre quello. Sono varianti di cui avevamo bisogno”.