Verso una nazionale sbarazzina
Non ricordo più in quale occasione, ma una volta ho letto una frase fulminante di Borges sulla sua identità: suonava come «Non avendo parenti italiani, non posso dire di essere un vero argentino». C’è tutto: identità nazionale e melting pot, ironia e profondità, sintesi e arguzia. Un po’ quello che ci aspettiamo dal terzo argentino più famoso del globo: con quel cognome, Bergoglio, non può che essere argentino vero (visti le ascendenze italiane).
Ed è da lui che bisogna (ri)partire: dal messaggio concreto («Uomini prima che campioni») che parla di responsabilità sociale, e che sotto sotto fa anche capire chiaramente come il valore dello sport vada ben oltre il campo di gioco. Curioso: li vedi entrare sul manto verde, farsi segni e scongiuri di ogni genere, baciare collanine e catenine, per poi magari cominciare a menarsi come fabbri senza pentimenti di alcun genere.
Per fortuna, a ogni modo, Italia-Argentina (terminata 1-2) è stata una partita bella anche quando non piacevole, tra due nazionali rimaneggiate, in un calcio estivo che per ci vede ancora una volta indietro (la Bundesliga è già ripartita, e altrove ci si scalda già). Formazione sperimentale per noi, e di là niente Messi: spettacolo non irresistibile, ma a Ferragosto possiamo non farci attenzione.
Sulla partita, Prandelli ha fatto scelte strane, forse per testare qualcuno, forse per testarlo in condizioni particolari, forse ancora per verificare la tenuta in ruoli particolari (De Rossi in difesa, Antonelli a sinistra, Verratti a menare le danze). Meglio nella ripresa, con l’ingresso della fantasia. Prandelli si ritrova stretto tra due vie: giocare come nel primo tempo, impostando un gioco solido (ma talvolta inconcludente, e con un centrocampo che non è parso una diga), per macinare le competizioni partita dopo partita; oppure dare spazio ai giovani e agli sbarazzini, come si è visto nella fase finale, giocando a testa alta e anche in modo confuso. Perché, questo è chiaro, non saremo mai il Barcellona.
Ecco, l’analisi della squadra sta tutta qui: prima confrontando il codice etico (tanto caro a questo ciclo) con le parole del Papa, e poi guardando in campo quei minuti in cui abbiamo fatto vedere belle intuizioni, anche se vivendo sull’estro dei singoli. Perché il nostro gol, cioè la rete di Insigne, nasce così: attacco confuso, palla quasi persa, poi rigiocata un po’ alla boia d’un giuda in orizzontale, con il napoletano (fresco innesto dopo un’ottima estate con l’Under21) che se la ritrova a due passi e, più d’istinto che di sguardo, lancia verso il palo opposto. La rete si gonfia, noi abbiamo almeno questo contentino, in una partita che ci ha visto troppo spesso inferiori.
Perché la chiave di questo gruppo può essere solo questa: trovare l’equilibrio tra il bel gioco ordinato proposto da Prandelli, e le individualità anarchiche in grado di muoversi negli spazi stretti e di creare scompiglio. Prendiamo anche Verratti, pure lui reduce da una bella estate: non ha ancora la personalità di Pirlo, e si vede. Ha letture interessanti, ma ancora non riesce a guidare un reparto in difficoltà; si è mosso meglio, invece, nelle fasi finali (prima di avere però un piccolo risentimento), quando Cerci correva come una furia e il pratese Diamanti e il napoletano Insigne si divertivano a nascondere il pallone (fascia sinistra, ci si è concessi persino il lusso di un tunnel).
Personalità, faccia tosta, spregiudicatezza: chiamatela come vi pare, ma di questo stiamo parlando. Verratti ha la faccia da bravo ragazzo: si farà («anche se ha le spalle strette», cantava De Gregori), ma l’autorevolezza ai massimi livelli la deve ancora trovare con continuità. Insigne, invece, non si fa problemi: quell’autorità se la prende, semplicemente. Gioca come sa giocare, e come sa di poter giocare. Quando vede un varco, non ha timori reverenziali. (Non così davanti alla telecamera: l’intervista nel dopopartita è stata una collezione di luoghi comuni, ma non si può pretendere.) Forse è troppo, ma diciamo che può fare il brasiliano.
Tutto sta a riuscire a conciliare anime differenti e complesse come il napoletano, Balotelli, De Rossi e quant’altri. Tutte personalità marcate. Pirlo, ora come ora, rimane inarrivabile: non alza la voce, non ha bisogno di farsi sentire in spogliatoio (a differenza di nomi ben noti), ma in campo mette tutti d’accordo, e accanto a lui non sfigura nessuno. Insigne, a oggi, ha mostrato più potenziale che limiti: forse non basterà per farne la colonna del nostro mondiale 2014, ma il futuro sembra comunque suo. Balotelli… vedremo. Non ci sarà contro la Bulgaria, e forse avrà più tempo ancora per pensare al suo incontro con il Papa: fumantino in campo l’italiano, «indisciplinato» (ipse dixit) in Vaticano l’argentino. Ma con valori importanti: forse è l’uomo giusto per trasmetterli. Perché la nostra identità, l’identità della nazionale azzurra, sia fatta di personalità e colori e animo sbarazzino.