Una giornata speciale: gli amichetti gli avevano chiesto se sarebbe andato con loro a giocare a Leazes Park. Le resistenze della mamma erano state vinte dal papà, che tredici anni evidentemente li ha avuti anche lui.
E così, quest’oggi, il ragazzo ha preso la Metro, è sceso a Monument ed ha incontrato i compagni di scuola che abitano in centro a Newcastle. Il programma è chiaro: due tiri al parco, all’ombra di Saint James’ Park, per imitare gli eroi in maglia bianconera.
Ad un certo punto la palla si impenna nel classico cielo plumbeo estivo del nord dell’Inghilterra. Il nostro protagonista si coordina, prepara il mancino per l’impatto che non lascerà spazio ad una replica dell’improvvisato portiere. Con il cuoio che si staglia sull’immagine in lontananza dello stadio la sua mente, in una frazione di secondo, ripensa ad esattamente 30 mesi fa, quando papà (sempre lui ci pensa a salvarlo) lo portò in zona a vedere lo United.
Ospite di giornata il grande Arsenal di Van Persie, un investimento valido delle trenta sterline richieste al botteghino. I due prendono posto nel Gallowgate Stand. Maglietta dei Magpies addosso, qualcosa da mangiare in mano. Dietro di loro un gruppo eterogeneo di ragazzi di diverse nazionalità, probabilmente studenti universitari. Alla loro sinistra un signore con la birra in mano.
Lo stadio, come da tradizione, si riempie solo all’ultimissimo minuto di attesa, ma per allora tutto è pronto. Si parte.
O meglio: partono solo i londinesi! Prima Theo Walcott infila Fabricio Coloccini e batte l’estremo difensore del Nord Est per la prima marcatura. Poi tocca a Johan Djourou girare in porta, baciando la traversa dopo un cross su punizione. Poi la doppietta del fenomeno Robin Van Persie, con un tiro facile prima ed un’incornata poi. Nel primo tempo il Newcastle non ci capisce nulla, subisce troppo le corse degli esterni in maglia rossa, perde le marcature in mezzo e si affaccia fiaccamente in avanti. Ma la paura, l’imperizia e la differenza tecnica con l’avversario non avrebbero rovinato quel pomeriggio al nostro amico, che tranquillo rimane in tribuna.
“Perderemo papà?” “Può essere, speriamo almeno di combattere fino alla fine”.
Succede una cosa incredibile alle nostre latitudini: lo stadio rimane pieno. Qualcuno, è vero, se ne è andato al tre o quattro a zero, ma è una sparuta minoranza. A Saint James’ Park non si va per vedere trionfare i Magpies, ma si va perchè è lì che sta il cuore, è lì che la città rivendica la storia della sua gloriosa squadra, a prescindere dal risultato. E’ da lì che l’orgoglio Geordie ha cassa di risonanza, e in nessun altro luogo, che esso sia uno stadio o meno. E quando si è sotto 4-0 meglio, il grido sarà ancora più forte.
Abou Diaby da una grossa mano alla squadra di casa, facendosi cacciare fuori per comportamento scorretto. Il signore che teneva in mano la birra al primo minuto ora si alza ed arringa la folla “Newcastle, Newcastle, Newcastle…”, vuole che tutti si uniscano al suo coro. Gli universitari dietro il bambino lo seguono, come altri nel Gallowgate Stand. Uno steward si alza e con calma chiede all’amante delle Ale inglesi di sedersi. Altrettanto gentilmente (per quanto possibile) quest’ultimo lo fa, ma qualcosa sulle tribune è cambiato, e mentre i palloni nell’area del povero Wojciech Szczesny piovono copiosi ci credono tutti, anche sul 4-0, soprattutto sul 4-0.
Sgambetto in area, è il 68’. 1 a 4 a causa della trasformazione di Joey Barton. È già delirio. 2 a 4 quando Leon Best prende un rimpallo e lo butta in porta. 3 a 4 su un discusso rigore ancora trasformato da Barton. Mancano sette minuti. Il bambino si gira verso il padre “Sette minuti? Gliene facciamo altri tre!”.
Ma il portiere dell’Arsenal fa un paio di parate e mantiene i suoi in vantaggio. C’è un giocatore ivoriano giunto dall’Olanda di cui gli inglesi fanno molta fatica a pronunciare il nome: Cheick. Ha sostanzialmente guardato tutti i gol della partita come spettatore pagato, ma quel secondo tempo l’ha dominato. Maestoso nel cambiare gioco, sicuro nel fermare gli avversari, entusiasta nell’osservare quello stadio immenso spingere così una squadra alla frutta solo mezz’ora prima.
E’ bassino, sui cross resta fuori area. Punizione dalla tre quarti; il traversone è fuori misura e il pallone prende una testata da uno dei compagni di Arshavin, Van Persie, Walcott e compagnia. Cheick, che di cognome fa Tioté, vede il cuoio stagliarsi sullo sfondo del cielo plumbeo invernale inglese, e si coordina per il tiro che non lascerà spazio alla replica del portiere.
Il padre del bambino si gira verso di me, mi fa capire con uno sguardo quanto stolti siano stati quei trenta (su cinquantamila) che hanno lasciato l’impianto all’intervallo, prima che partisse la più grande rimonta nella storia del calcio inglese. Poi suo figlio lo abbraccia, lui ricambia spettinandogli i capelli, osservando sul campo le facce dei campioni londinesi, pietrificate.
Quando Tioté segnò quel fantastico gol da fuori area, non sapeva come esultare. I suoi compagni lo volevano prendere, il pubblico ricoprirlo d’affetto come non è possibile fare, il suo allenatore allungargli il contratto di dodici anni. Lui si girò prima a destra, poi corse e procedette con una andatura furiosa e confusa fino a metà campo. Le potenti ginocchia nere caddero al suolo vicino al centro campo, con le spalle rivolte al Gallowgate Stand da dove noi lo guardavamo esultanti e ormai senza più voce. Chiuse gli occhi, sopraffatto dalla potenza di Saint James’ Park, che in un pomeriggio di febbraio rese il centrocampista un capitolo poderoso della sua gloriosa storia ultracentenaria.
Nel dicembre successivo, dieci mesi dopo quel giorno di febbraio, entrai nel negozio su due piani all’interno dello stadio. Mancavo da un po’ da Newcastle, mi volli fermare per dare un’occhiata. La sezione “ricordi” è la prima, per insegnare la storia dei Magpies a chiunque transiti da lì.
Tra un quadretto autografato da Alan Shearer, un poster di Gary Speed o di Paul Gascoigne e vecchie riviste ingiallite dal tempo raffiguranti Jackie Millburn non potevo non notare un quadro largo un metro, fatto di vari tratti di colore incastonati fino a formare la più riconoscibile, per me, delle esultanze.
Un centrocampista ivoriano inginocchiato davanti ad uno dei più grandi stadi del Regno Unito teneva gli occhi rivolti alle nuvole, senza guardarle. Le braccia tese verso l’esterno, sullo sfondo indizi di un popolo in festa.
A Newcastle c’è chi va e chi viene, ma il calcio veicola la passione degli indigeni per la vita tramite quella per la loro squadra. Quando un pallone si impennerà nel cielo chiunque fosse lì in quel momento penserà sempre alla rete dell’Arsenal che si gonfia, a quel pareggio strappato con le unghie e con i denti.