Lo sport e il dopaggio sociale
Malgrado fosse il giorno precedente la Sentenza delle Sentenze (quella della Sezione Feriale della Cassazione sul processo Mediaset), lunedì mattina Il Fatto Quotidiano titolava a tutta pagina su “I dopati della domenica”. Argomento tutt’altro che banale, cui dedicare un reportage di due pagine (più una terza per un racconto apposito, firmato da Gianni Biondillo), subito dopo un’abituale cronaca giudiziaria.
L’argomento, però, è tutt’altro che irrilevante; come ben sapranno i miei dieci lettori (Manzoni se ne dava venticinque, ma chi vi scrive è decisamente più piccolo), non è difficile pensare che il mondo sportivo sia uno specchio della società; e che, a volte, deformare quello specchio significa deformare la realtà. (Corollario: rendere pulito il mondo sportivo sarebbe forse un esempio utile per migliorare tutti.)
La formula è efficace: il titolo principale è “Io, anabolizzato della domenica”, e sfrutta a dovere una frase fatta e una parola tecnica ma nota, passandola in aggettivo. Concetto più che chiaro: anche gli amatori, di qualsiasi sport, fanno uso di sostanze dopanti. (E, a quanto leggiamo, persino di giochi che non rientrano negli sport.) Qui non si tratta di prendersi una camomilla (per avere l’animo più disteso) prima di fare il tiro al piccione con gli amici; si tratta di barare negli hobby. Come fare un solitario con le carte e risolverlo pilotandone l’ordine. Il dopaggio delle carte. Ha senso?
Lo sport, la sfida a se stessi, è evidente che possa finire in secondo piano. Ma allora, appunto, non qualifichiamolo più come sport. Ammettiamo che una sconfitta, l’ammissione di un limite manifesto, sono dolorosi da accettare. Cominciamo a chiederci se non sia opportuno rinunciare, se è troppo difficile riuscire a raggiungere un risultato “pulito”. Già nel 2010 il nipote di Francesco Moser, Matteo, aveva annunciato il proprio precoce ritiro, a soli 20 anni, perché «ho capito che chi non si aiuta con prodotti vari, difficilmente riuscirà a emergere». Era ancora dilettante, categoria Under23.
In altre parole: non è come sembra (frase che abitualmente si dice nel disperato tentativo di migliorare una situazione tra il tragico e il grottesco). Nulla è come sembra; e, in linea generale, «ognuno … dentro di sé sa bene tutto ciò che nell’intimità con se stesso si passa, d’inconfessabile. Si cede, si cede alla tentazione» (Pirandello, 1921). Però: capisco la tentazione per vincere sette Tour de France di fila; ma per portare a termine una sfida con se stessi, o con pochi amici, può valere la pena? Siamo così schiavi della nostra immagine? Forse sì, e non solo della nostra.
Ricordo, per fare un esempio, che tra i commenti più in voga ai tempi della vicenda di Lapo Elkann era: ma allora è tutto falso (riferendosi alla sua liaison con Martina Stella). Anche qui, il concetto è meno banale di quanto non sembri: abbiamo bisogno di credere in qualcosa (sia Dio, il Dalai Lama o le vittorie del Sassuolo); e non riusciamo ad accettare il fatto che ci sia differenza tra ciò che è e ciò che appare. A certe persone non interessava il fatto che un ventottenne fosse in coma per abuso di sostanze (anche qui, ripeto: abuso di sostanze), quanto il pensiero/pettegolezzo su una identità (sessuale, ma anzitutto personale). Nulla è come sembra: ciò che si dice e ciò che si fa sono due cose differenti. Si vince apparendo puliti, perché il tatuaggio con scritto “doping” lo teniamo nelle mutande.
Tutto questo per consigliarvi caldamente la lettura di quel reportage, anche per renderci conto una volta di più che comprare è un po’ votare (cioè: scegliere qualcosa significa approvarla, con tutto ciò che ne consegue), e che i nostri comportamenti, in ogni àmbito (nel tifo e nei comportamenti) si riflettono su tutta la società. C’è un intero mercato riguardante le sostanze dopanti; e, paradossalmente, per gli amatori è anche meno “sicuro” che per i professionisti (che possono mentire su certe frequentazioni, ma sono regolarmente seguiti da medici), i quali, perlomeno, poi possono contare anche su altri mezzi.
Per dire: Lance Armstrong, con anni di ritardo, ha finalmente ammesso le proprie colpe e responsabilità; e ha cercato di salvare una situazione personale crollata tutta insieme (con la classica reazione: prima eri un dio, adesso una feccia). Ha vinto tutto, prima; adesso cerca di mantenersi in piedi. Ma ha ancora senso per vincere una uscita domenicale con gli amici? Ha senso incorrere in un reato soltanto per una gratificazione piccola piccola (e che in cuor nostro sappiamo essere falsa)?
Anche qui, come ha scritto ieri il nostro Francesco Davide Scafà, «La loro forza, purtroppo, siamo noi…, e dovremmo pensare che lo siamo nel male, quando potremmo esserlo nel bene. Scegliere la condotta migliore (quella che possa farsi legge universale). Superare il nostro primo limite: riconoscere che sia giusto avere dei limiti. Hic est.