La partita di… Antonio Cunazza

La partita. Probabilmente uno dei ricordi migliori degli ultimi anni, per ogni tifoso granata. Semplicemente ilderbydeltreatre: Juventus-Torino 3-3, del 14 ottobre 2001.

Ennesima stagione da neopromossa per il Toro, quell’anno, ed ennesimo appuntamento con il derby che a Torino, è vero, non sarà “caldo” come in altre città, ma ha un significato molto, molto più profondo e sentito. Il derby di pomeriggio, quella volta, ci privava della classica magia ulteriore delle gare in notturna ma a 17 anni, con i tuoi amici, in Curva Maratona, non era certo l’orario del calcio d’inizio la preoccupazione più importante. La Juventus era quella del Lippi-bis, con un mix di grandi campioni (Thuram, Nedved, Trezeguet) e incredibili mezzi-giocatori (Zenoni, Paramatti, Pericard). Insomma, a pensarci oggi non fa più così tanta paura come allora. Anche perché, a pensarci oggi, quel Toro era davvero una gran bella squadra (Asta, Ferrante, Cauet, Lucarelli), di basso profilo forse, ma perfetta espressione dello “spirito” che impone la storia della maglia granata.

IL PRIMO TEMPO – C’era una grande carica emotiva nell’aria. Una carica evaporata dopo neanche 10 minuti: fase difensiva “a due” dei granata, assist facile di Nedved e 1-0 di Del Piero. Eccolo lì. Proprio sotto la Maratona. Poi uno dice, arrivi bello carico allo stadio, con una tensione a mille, sai che bisognerà tenere su la barricata il più possibile e tac, vai sotto dopo 9 giri d’orologio. Una mazzata. Altri 120 secondi, punizione bianconera dentro l’area, un paio di flipperate e spunta Tudor sul secondo palo che appoggia in rete. 11′, 2-0, auguri. Dalla curva opposta, in lontananza (molto in lontananza, considerando che si era al vecchio Delle Alpi), iniziarono cori (brevissimi) ed esultanze da “ormai è fatta”. E bastarono altri 12 minuti per confermare questa tesi: Nedved via sulla sinistra, Semioli (avessi detto Garrincha…) lasciato a registrare i tempi dello sprint, cross basso in mezzo e ancora Del Piero per il 3-0.

24 minuti orrendi. Nella partita più importante dell’anno, contro l’avversario peggiore (in tutti i sensi) che ci sia, 3 gol presi in meno di mezz’ora, davanti al nostro naso. Non ricordo molto di più di quel primo tempo, se non il fatto che continuammo a cantare (a differenza di quelli dall’altro lato) e, nel mentre, a proporre i classici processi tecnico-tattici: “perché Semioli è stato scelto dal primo minuto?”, “perché Ferrante è in panchina e Osmanovski titolare?”, “ah, perché Osmanovski gioca? Manco me ne sono accorto…”. Ma quel Toro aveva qualcosa di speciale, a cominciare dall’allenatore, un uomo da Toro, Giancarlo Camolese. Certo, oggi siamo ormai abituati al famoso Liverpool di Istanbul, a “chissà-cosa-ha-detto-Benitez-nell’intervallo” e a quella clamorosa rimonta. Vero. Ma io non credo che le cose, in quel pomeriggio di ottobre al Delle Alpi, andarono tanto diversamente.

LA RIMONTA – Pronti, via, secondo tempo e due sostituzioni che avrebbe fatto anche l’ultimo dei novellini: fuori Osmanovski e Semioli, dentro Ferrante e Vergassola. Ci credevamo, per qualche strana ragione ci credevamo. Io no, lo ammetto, sono sempre stato un pessimista in queste cose, ma c’era comunque un’atmosfera particolare in curva, non era ancora finita. Al 56′ uno sprazzo di luce: lancio di Ferrante, Lucarelli entra in area e scarica alle spalle di Buffon. Come se ci avessero buttato giù dal letto in piena notte. Catapultati all’improvviso in un’altra partita, che non aveva più nulla a che fare con quella vista nel primo tempo. Potevamo crederci. Dovevamo crederci. Neanche un quarto d’ora dopo, poi, il momento di svolta: il capitano, Antonino Asta, supera Tudor, si allunga la palla per entrare in area e viene steso da Thuram. Boom. Calcio di rigore. Oggi ho ancora i brividi ricordando la sua esultanza subito dopo il fischio dell’arbitro. Quello era IL momento, e noi avevamo l’uomo fatto PER quel momento: Marco Ferrante. 11 metri di distanza e 3-4 secondi con il cuore in gola: Buffon a sinistra, palla a destra, 2-3 al 70′. Eravamo di nuovo in partita e “loro” erano in bambola completa.

A quel punto ci credevamo tutti, ci credevo pure io (il che è tutto dire), si era creata una simbiosi tale con i ragazzi in campo, che eravamo davvero in 12 a giocare quella partita: 11 granata + La Maratona (nell’altra metacampo, invece, un gruppo di snob a righe, ormai completamente spauriti e incapaci di reagire). Mancava un solo passo, quello dell’83esimo minuto: cross di Asta, incornata di Ferrante, miracolo di Buffon in controtempo e palla che resta lì. Sospesa. Come fare un fermo-immagine. Se ripenso a quel momento, riesco a rivedermi mentre ci aggrappiamo tutti uno all’altro, giro gli occhi verso sinistra e vedo Riccardo Maspero (entrato poco prima al posto di Lucarelli) che sopraggiunge, come fosse una scena al rallentatore. Calcia di prima intenzione quasi dal fondo, Buffon tenta alla disperata di salvare sulla linea e poi l’apoteosi. Uno dei momenti più incredibili della mia vita. Se dovessi descrivere un delirio di gioia dovrei far vedere quelle scene: 3-3, in rimonta da 0-3, nel derby contro la Juventus.

Ma non era ancora finita. Mancavano molti minuti alla fine della partita, “troppi” considerando chi avevamo di fronte. E infatti, 86′, Delli Carri (non Beckenbauer, effettivamente) trattiene Tudor e lo tira giù in area. Calcio di rigore. Figurarsi se non succedeva. Ancora in pieno trasporto post-pareggio, veniamo ributtati già dal letto per la seconda volta. E, dopo ben 6 reti viste nella porta sotto di noi, arriva un rigore contro che sarà calciato nella porta opposta (cioé, considerando il vecchio Delle Alpi, come provare a vedere la Corsica all’orizzonte da una spiaggia della Liguria…). In curva il silenzio. Mentre le proteste proseguono intorno all’arbitro, Maspero va a scavare una sorta di “buca” sul dischetto del rigore, una scena d’altri tempi. Salas mette il pallone proprio davanti alla buca e, di fatto, è inconsapevolmente pronto a calciare un drop rugbistico. Il silenzio in curva, intanto, prosegue. Battito cardiaco fermo, Salas prende la rincorsa. Tira. Alto. Come toccare il cielo con un dito (probabilmente insieme al pallone calciato da Salas). Un’esultanza che nemmeno avessimo segnato il gol del 4-3. Qualcosa che va oltre ogni immaginazione, che mi fa venire il magone ancora oggi, a quasi 12 anni di distanza.

Da lì al fischio finale nebbia completa, una manciata di minuti giocati e poco altro. Avevamo fatto l’impresa. Forse (mi prendo la responsabilità di quest’affermazione), l’impresa più grande del Toro degli ultimi anni dopo l’epoca di Mondonico e Cravero. A 17 anni, con i propri amici, in Curva Maratona, a vedere QUEL derby. Indimenticabile.