La partita. Per un cuore nerazzurro non esiste altro modo di riferirsi alla sfida più epica che la Beneamata abbia giocato negli ultimi vent’anni: Inter 3-1 Barcellona del 20 aprile 2010.
Ricordo quel giorno come se fosse ieri, a più di tre anni di distanza, ormai. Una giornata da ordinaria amministrazione se non fosse per quel groppo in gola che fin dalla mattina ha accompagnato me e chissà quanti altri “fratelli nella fede”, come al solito divisi tra i super ottimisti (“Quelli là pensano d’aver già vinto, vedrai che li sorprenderemo”), i fatalisti (“Quel che sarà, sarà”) e i pericolosissimi iper-critici negativi (“E’ già stato un miracolo arrivare fin qui: il Barcellona è troppo forte, figurati… Cerchiamo almeno di evitare la figuraccia”).
Senza essermi fatto troppe aspettative ma comunque non partendo sconfitto nel mio cuore, ricordo che il giorno trascorse in ombra, paragonato alla luce splendente dell’appuntamento delle 20.45, in occasione del quale ero mentalmente pronto ad assidermi in trono davanti allo schermo coi fidi compagni di televisore: mio padre e un mio collega siciliano ma più interista di Peppino Prisco. Con loro ci eravamo dati appuntamento al classico baretto portafortuna sotto casa, quello in cui avevo spiato tutte le partite dell’Inter di quell’anno in Champions League. Avevo persino prenotato con cura la postazione (nonostante il locale deserto) perché anche la sola idea di non sedermi nello stesso tavolino “fortunato” delle altre volte mi provocava sbalzi di glicemia preoccupanti.
Pronti via, dunque, appena il signor Benquerença ha messo in bocca il fischietto per emetterne il consueto, stridulo suono. In mezzo agli spasmi procurati in noi dal semplice assistere al tiki-taka blaugrana, ecco l’inizio che non ti aspetti: un’Inter lontana parente della squadra timorosa e colma di ammirazione (o invidia) che aveva affrontato l’armata culé in inverno: peccato solo che Milito sbagli il pallone del vantaggio non sfruttando una respinta corta di Valdes. Però (perché in un thriller come questo il però non manca mai) il gol che apre le danze lo segna il Barça ed è uno di quei gol che lasciano l’amaro in bocca giacché è l’ex di turno Maxwell che scivola via sulla sinistra e appoggia in mezzo all’area un pallone comodo per Pedro. La scena assume subito contorni da tragedia greca nella mia mente, dove sguazzano pensieri del tipo: “Ma perché non ce lo siamo tenuto?”, “Almeno non ha segnato Ibra” ma soprattutto: “Che mi illudevo a fare, finirà come sempre”. Sempre naturalmente vuol dire con l’Inter sconfitta. La percezione deprimente si è acuita quando il Principe del Bernal si mangia di un niente il pareggio, qualche minuto dopo.
Lo ammetto, dopo il vantaggio catalano e la non-risposta nerazzurra mi ha preso lo sconforto, sconforto che però ha pensato Samuel Eto’o a scacciare con una delle sue stregonerie africane: la sgroppata sulla destra (in teoria presidiata dal rimpianto di dieci minuti prima Maxwell) del bomber camerunense e il suo preciso cross per Milito in area hanno fatto fermare il mio cuore (e presumo anche quello di molti altri): grazie al Cielo il Principe ha poi deciso di smistare il pallone all’accorrente Sneijder invece di cercare la conclusione da attaccante egoista. Quell’altruismo valse il pari e una notevole riduzione della frequenza delle mie palpitazioni cardiache.
Palla di nuovo al centro, la terza volta in mezz’ora, e si ricomincia di nuovo. Tutt’a un tratto prende palla il numero 10 blaugrana e mi ritrovo a pensare: “Messi?? Ma dov’era finito??” ed è solo allora che realizzo che la Pulga era stata letteralmente cancellata da San Siro fino a quel momento. A una più attenta osservazione noto come il piccolo Lionel (quella sera sembrava addirittura minuscolo) fosse stato letteralmente ingabbiato dal vate Mourinho: la Pulce non poteva fare un passo col pallone che subito Cambiasso e Zanetti, a turno coadiuvati da Sneijder, Pandev, Chivu e uno tra Samuel e Lucio, gli si avventavano contro togliendogli non solo spazio ma anche l’aria necessaria alla respirazione. E Ibra? Non pervenuto, completamente.
Finito il primo tempo, ecco una rapida corsa alla macchinetta del tabaccaio più vicina per fare rifornimento di anestetizzanti poiché mancavano ancora tre quarti d’ora alla fine dell’agonia interiore. Mentre cerco di sbrigarmi a rioccupare il mio posto, rallentato dalla macchinetta scarsamente propensa a ridarmi un resto piuttosto importante per le mie dissestate finanze, sento voci alzarsi dal bar e accorro con la sigaretta in bocca: dalla finestra ho appena il tempo di vedere Maicon infilare Valdes e impazzire anch’io con lui. Solo col replay scopro che il numero 22 aveva distribuito un altro assist e ricordo d’aver pensato che fosse un peccato che Dieguito non potesse apporre il suo sigillo in una serata così… Detto, anzi, pensato, fatto: su un altro contropiede letale dell’armata nerazzurra di nemmeno 15’ dopo, peraltro innescato da una magia di Goran Pandev, Eto’o s’invola ancora una volta sulla destra (togliendomi ogni residua nostalgia di Maxwell) e scodella un traversone sul quale Sneijder fa quel che può di testa ma di fatto inventa un assist per il Principe che insacca una comoda rete.
A quel punto sembra la serata perfetta e il pensiero corre solo al testé citato signor Benquerença, sperando che fischi la fine il prima possibile… Ma manca ancora mezz’ora. Trenta minuti di sudori freddi e di tuffi al cuore, prima col mischione in area e Piqué che aleggia sulle acque, poi con Maicon che esce in barella e Dani Alves che viene leggermente toccato da Sneijder in area e va giù come se gli avessero reciso d’un tratto il tendine d’Achille. Ma il fortino tiene, con unghie, denti, lacrime e sangue: fa persino in tempo a far capolino Mario Balotelli per rompere per sempre il rapporto che lo lega alla tifoseria, intestardendosi su un tiro assurdo prima e gettando a terra la maglia nerazzurra poi. Ma il triplice fischio arriva ed è una liberazione: momentanea, però, perché prima di arrivare in finale c’è da oltrepassare l’ostacolo Camp Nou.
Dopo la fine della sfida, nella mia mente non c’è spazio per trasferte iberiche, per il campionato tutt’altro che deciso o qualsiasi altra cosa: non riesco a pensare ad altro che non sia l’unicità dell’Inter. Unica squadra, in Europa, ad aver non solo sconfitto ma proprio aver messo sotto sul piano del gioco il Barcellona dei miracoli di Guardiola, unica squadra a non essere stata distrutta dal tiki-taka, unico gruppo dove, dando ognuno il 120%, si è riusciti a sconfiggere il mostro blaugrana dai piedi fatati. Ed è lì che penso a José Mourinho, al suo capolavoro e alla speranza che inizia ad aleggiare nel mio cervello, una speranza che si chiama Triplete e che il Vate di Setùbal saprà trasformare in meravigliosa realtà appena un mese dopo.
Inter-Barcellona occuperà per sempre un posto nei nostri cuori interisti perché, anche se solo per una notte, nessuno di noi ha potuto fare a meno di pensare, quasi increduli: “Siamo i più forti del mondo…”.