La partita di… Francesco Filippetto

Oggi voglio scrivere di una partita passata alla storia del calcio italiano, ma tra le tante questa è la prima che lasciò traccia dentro di me. Il bello di questa partita che racconterò ora è che non l’ho vista. Non sono impazzino tranquilli, solo che negli anni 80 se volevi vedere una partita domenicale in diretta, dovevi per forza andare allo stadio, non esistevano Pay per Wiew, streaming o altre parolacce simili e se non potevi presenziare allo stadio, allora la partita non la vedevi, ma la ascoltavi.

In quegli anni buona parte dei tifosi seguiva così la propria squadra, incollati con l’orecchio alle radioline per essere aggiornati all’istante su gol e risultati. Così Sandro Ciotti, Enrico  Ameri e tanti altri giornalisti,  durante Tutto il calcio Minuto per Minuto attraverso la loro singolare voce raccontavano la giornata calcistica, solleticando la fantasia del tifoso e creando quella suspance che solo una diretta radiofonica può creare.

Era domenica 28 maggio 1989, una bellissima domenica primaverile piena di sole e io da pochi giorni avevo compiuto 12 anni. Vivevo in periferia della città dove il boom economico aveva fatto sorgere alloggi e condomini, riempiti di giovani coppie che lavoravano duro nelle fabbriche di quello che a breve sarebbe diventato il Nord-Est. Tanti nuclei famigliari e relativi figli aggregati dall’età e dalla scuola che si riversavano ogni pomeriggio in strada per giocare a calcio nel campetto.

Ma quella domenica per me non era una domenica come le altre. L’Inter di Trapattoni ospitava in casa il Napoli di Maradona nello scontro diretto che in caso di vittoria avrebbe significato scudetto. Evitai di recarmi al campetto per ritagliarmi un pomeriggio tutto mio con la mia Inter. Esco così in giardino dove piazzo la radio di mamma, sistemo l’antenna con cura perché il segnale sia pulito senza interferenze e mi preparo all’ascolto della partita, palleggiando con il mio Tango per smorzare la tensione.

La partita comincia e io sono in trance agonistica, manco dovessi giocare. Enrico Ameri mi spiega che il Trap mira al sodo mettendo Baresi in marcatura sul Pibe de Oro, perché oggi l’importante è non perdere per i nerazzurri. La partita scorre veloce come un fiume in piena nel primo tempo, mentre il mio cuore si arresta momentaneamente quando in diretta Serena si divora un gol solo davanti a Giuliani. Tengo duro e penso che ci siamo stiamo attaccando, la partita ha preso la giusta piega, ma al minuto 36 durante la cronaca di un’altra partita interviene Ameri con la notizia che proprio non ti aspetti: “ Napoli in vantaggio, Careca ha portato il Napoli in vantaggio”. Solo nel mio giardino inizio ad avere pensieri negativi e drastici che mi accompagnano fino alla fine del primo tempo con il Napoli in vantaggio a San Siro.

Inizia il secondo tempo, io sono in ansia e palleggiare con il mio Tango non basta più. Inizio a calciare sul muro fingendo dei passaggi, per poi scagliare i miei tiri con rabbia, in quella fantasiosa porta che in realtà era il cancello. Il Trap fa entrare Bianchi uno dei miei preferiti insieme a Berti e Matthäus. E’ iniziata la ripresa da pochi minuti, quando un boato interrompe le radiocronache, è Milano, l’Inter ha pareggiato con un tiro di Berti deviato da Fusi. Esulto come se il gol lo avessi fatto io. Mi ricompongo, ora basta giocare, mollo il pallone, adesso ci vuole la massima attenzione e mi siedo davanti la radio con il cuore in gola e la speranza a farmi compagnia.

Ogni interruzione di un cronista per comunicare un gol è un balzo al cuore, sentire le urla dei tifosi in sottofondo prima delle parole dello speaker non mi permette di capire quale campo sta intervenendo e mi agita. I minuti passano, siamo alla mezzora quando la radio mi avvisa che Careca ha colpito il palo. Maradona, Careca, Carnevale, Alemao, questi sono proprio forti, inizio a pensare che un pareggio forse può bastare, manteniamo le distanze, accontentiamoci.

Ma quell’Inter era un carrarmato inarrestabile, guidato da Lothar Matthäus, uno per cui il calcio non era uno sport, ma un comandamento. Così giunti al minuto 83 la mia radio esplode, una fracasso assordante interrompe le telecronache “…Attenzione, attenzione, Inter in vantaggio!!!” con queste parole Ameri interrompeva la cronaca di un collega per annunciare il gol di Matthäus su punizione che a pochi minuti dalla fine voleva dire Scudetto, il numero 13 per i nerazzurri, il primo per me da giovane tifoso.

Ricordo gli ultimi istanti della partita, mentre Enrico Ameri in diretta raccontava questi frenetici minuti, interrotto costantemente dai colleghi per i finali dai campi. Miseria, finiscono tutte tranne la nostra pensavo. Fino a quando Agnolin fischiò la fine, sentii in diretta il triplice fischio e nella solitudine del mio giardino iniziai a saltare gridando “ Campioni d’Italia, Campioni d’Italia!”.

Non avevo bandiere, non avevo sciarpe, ma solo la gola per manifestare la mia gioia ai primi caroselli che pochi minuti dopo sfilavano per la via in direzione della città. Cosi in quel pomeriggio di maggio, mi sono innamorato di una squadra, di uno sport e dell’emozioni che può regalare il calcio a un ragazzino ingenuo e tifoso. Quando il calcio era una voce alla radio, quando i gol arrivavano alle 18.10 con 90° minuto, quando ero piccolo e lontano dal Business, da Calciopoli e le combine. Quel calcio che mi fa sentire un nostalgico, vecchio invece per qualcun altro, ora lo posso solo raccontare perché non c’è più, ma seppur diverso e più complicato, lo continuo nonostante tutto ad amare perché da quel giorno è parte di me.

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Francesco Filippetto