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Tour de France 2013, riavvolgiamo il nastro

Con l’atmosfera serale insolita dei Campi Elisi e le realizzazioni visive sull’Arco di Trionfo è calato il sipario sulla centesima edizione della Grande Boucle. Le strade francesi hanno eletto come loro re Chris Froome, un keniota bianco che corre sotto bandiera inglese. Una vittoria annunciata largamente dopo la passata stagione e mai messa in discussione dagli avversari nonostante qualche difficoltà lungo il tragitto.

Sono stati ventitre giorni ricchi di spunti, di dettagli, di curiosità. Il film di questa corsa è cominciato a fine giugno in Corsica dove l’inizio non è stato decisamente dei migliori. Il pullman dell’Orica, incastrato sotto il cartello dell’arrivo con il plotone lanciato a una decina di km di distanza, è stata una scena mista tra il comico e il drammatico, risolta al fotofinish con la discutibile decisione dell’organizzazione di azzerare tutti i distacchi. La Corsica poi ha rischiato di ripetersi quando il giorno seguente un innocente cagnolino ha attraversato improvvisamente la strada, rischiando di essere travolto dal gruppo. Stregata, senza dubbio, lo è stata per Sagan, tornato dalla trasferta isolana con due secondi posti e una brutta caduta; il ciclista slovacco, però, ha tirato fuori i denti e grazie all’ottimo lavoro della sua squadra è riuscito nei giorni seguenti a portare a casa una vittoria di tappa ad Albi.

Dalle tappe dei velocisti ci si aspettava alla vigilia il classico testa a testa Greipel-Cavendish e invece tra i due litiganti è stato Marcel Kittel a godere. Per il tedesco un poker di vittorie in cui ha dimostrato la propria forza sia nel rimontare gli avversari nei metri finali, sia nel sapersi difendere dai loro attacchi; questo ragazzo teutonico, nato nella Turingia, si è guadagnato di diritto la palma di uomo della velocità, strappandola a un certo Cannonball Cavendish.

Un Tour ricco di dubbi da parte di chi ormai nutre sospetti verso i professionisti delle due ruote. Non hanno convinto le medie altissime della crono a squadre, giustificate dai miglioramenti tecnici dei mezzi; non ha convinto Froome, troppo potente per sembrare umano e non un extraterrestre. Si è arrivati anche a sospettare sulla sua crisi di zuccheri sull’Alpe d’Huez, per qualcuno preparata ad hoc come una sorta di operazione simpatia. Tutti strascichi di un passato dal quale questa disciplina vuole staccarsi completamente.

Alla fine di tutto c’è rimasto un podio giusto con il presente del ciclismo rappresentato dall’attuale Froome, un motorino sulle strade in salita, una forza pari al doppio di quella dei suoi avversari e una gran voglia di vincere e anche di strafare. C’è poi il futuro con Quintana; questo colombiano è venuto fuori dopo l’uscita di scena anticipata di Valverde, bloccato da una foratura e da una giornata particolarmente ventosa. I colombiani hanno da sempre una lunga tradizione tra gli scalatori e questo ragazzo dai tratti somatici simili a un indiano del Nord America ha dimostrato di avere le gambe per fare la differenza quando le pendenze raggiungono picchi al 9-10%. C’è il Purito Rodriguez che si è conquistato il gradino più basso del podio, scalzando il suo connazionale Alberto Contador al quale va riconosciuto il coraggio e la voglia di cercare di mettere in difficoltà Froome, ma sulla strada ha dimostrato di non aver avuto la benzina adatta per stare ai livelli dei primi tre.

Infine il capitolo italiani dove interrompiamo la serie negativa e ritroviamo un ciclista nostrano a vincere una tappa grazie a Trentin. Uno dei pochi lampi in una corsa che di italiano ne ha masticato veramente poco, mancando ai nastri di partenza uomini di classifica e grandi scalatori su cui puntare. Delude Cunego, mentre il terzo posto di Moreno Moser sull’Alpe d’Huez è stato comunque un motivo di grande orgoglio. Ora c’è grande attesa per il futuro per vedere magari un Nibali trionfatore a Parigi; un sogno per portare a termine un tris fantastico dopo le vittorie di Vuelta e Giro d’Italia.