La partita di… Cristiano Vaccarella

1986: quando i giallorossi del Salento infransero il sogno degli omologhi capitolini

Chi scrive ha amato (e ama tuttora) particolarmente una certa idea di calcio. Quella che i campioni, i talenti, vadano sì coltivati, ma con una robusta dose d’intelligenza. Ciò che esattamente era negli anni Ottanta, quando il nostro era davvero “il campionato più bello del mondo”.

Chi scrive ha avuto la fortuna di veder giocare tutti (ma proprio tutti) i più grandi fuoriclasse del periodo: dall’immenso Maradona al funambolico Platini, al concreto Matthäus, al trio delle meraviglie Gullit-Rijkaard-Van Basten, senza ovviamente trascurare i campioni nostrani (Zoff, Scirea, Altobelli, Baggio, Giannini, Ancelotti, etc.).

In quegli anni, particolarmente accesa era la rivalità fra Roma e Juventus: due simboli, il centro-sud della politica (il presidente giallorosso Dino Viola era anche senatore Dc, corrente andreottiana) contro il nord della finanza e dell’industria (gli Agnelli, proprietari del club bianconero da decenni). Rivalità che, sui campi da gioco, portò a sfide-scudetto memorabili, ricche di suspense, mistero e pathos.

In quel campionato 1985-86, i giallorossi erano stati capaci di rimontare in pochissime giornate ben 11 punti ai bianconeri. Si era giunti, così, alla 28a giornata, terzultima del torneo (allora a sedici squadre, quindi con trenta giornate), con le due compagini appaiate in testa alla classifica a quota 41 (la vittoria valeva solo due punti). Lo stato di forma, però, faceva la differenza: la Roma era in un momento di grazia, mentre la Juventus era apparsa, ai più, ormai “cotta”: pertanto, il destino dello scudetto sembrava ormai segnato.

Qualcuno – il giallorosso Boniek su tutti – inizia a fare proclami che scaldano ulteriormente la piazza capitolina, già molto passionale di suo. Anni dopo, l’allenatore Sven-Göran Eriksson (che nel 1986 sedeva sulla panchina romanista), ricorderà: “Avrei dovuto preservare la squadra dal clamore, dalle pressioni. Portarla in ritiro, lontano da tutto e da tutti. Sicuramente sarebbe andata in modo diverso”.

Domenica 20 aprile 1986, a Roma, era una giornata di caldo tipicamente primaverile. C’era il sole, e lo Stadio Olimpico era tutto esaurito in ogni ordine di posti. I giallorossi, nella 29a e penultima di campionato, avevano davanti a sé il compito più facile, un “rigore a porta vuota”: affrontare in casa il già retrocesso Lecce di Eugenio Fascetti, matricola giunta ultima in classifica e, pertanto, senza più nulla da chiedere. A Torino, intanto, la Juventus riceveva il Milan, da poco passato nelle mani di un giovane e dinamico imprenditore televisivo, Silvio Berlusconi.

Il presidente giallorosso Dino Viola compie, prima dell’inizio dell’incontro, il giro d’onore per la pista d’atletica che circonda il terreno di gioco, assieme all’allora sindaco Signorello, con tanto di sciarpa giallorossa al collo.

La partita si mette subito sui binari giusti: al 7′ Ciccio Graziani raccoglie un lancio lungo di testa e supera il portiere avversario Ciucci. I tifosi esultano, pensando che quella sia la prima di una lunga serie di gol che faranno da contorno alla festa-scudetto. Dopo il vantaggio, però, i giocatori romanisti passeggiano, frenati da mille calcoli, sciupando anche diverse incredibili occasioni.

A quel punto, sorge inaspettato l’orgoglio del Lecce: al 34′ un’avanzata di Miceli sulla fascia destra si trasforma in un cross che il giovane terzino Alberto Di Chiara – un ex, cresciuto nelle giovanili romaniste – incorna in rete. La Roma accusa il colpo e, tra l’incredulità del pubblico, otto minuti dopo si ritrova sotto di un gol. Ancora un’azione dell’incontenibile Alberto Di Chiara causa un calcio di rigore che il regista argentino Juan Alberto Barbas – con il dente avvelenato per essere stato escluso dal ct Bilardo dai 22 convocati per il Mondiale messicano 1986 – trasforma impeccabilmente.

Nella ripresa i giallorossi, frastornati, non sanno più come comportarsi e, al 53′, subiscono la terza rete dei salentini, ancora con Barbas, che scarta la difesa e supera Tancredi. Dopo qualche minuto, da Torino, le radioline annunciano che Laudrup ha portato in vantaggio la Juventus: ora la classifica recita 43 contro 41 per i bianconeri. E tale resterà fino al termine: inutile, infatti, il gol di Pruzzo all’82’, buono solo per le statistiche. La delusione all’ “Olimpico” si può toccare con mano: il sindaco Signorello lascia la tribuna ancora a partita in corso, i tifosi ammainano mestamente bandiere e striscioni e fanno ritorno alle loro case.

Ormai svuotati mentalmente e fisicamente, la domenica successiva i giallorossi perdono anche a Como (0-1), mentre la Juventus vince proprio a Lecce – ironia della sorte – col punteggio di 3-2 e conquista il suo ventiduesimo scudetto, l’ultimo dell’era Trapattoni (che l’anno dopo passerà all’Inter). Eriksson, per vincere lo scudetto nella Capitale, dovrà attendere ben quattordici anni: ce la farà nel 2000, però sulla panchina della Lazio.

IL TABELLINO

Roma, Stadio Olimpico, 20 aprile 1986

ROMA-LECCE 2-3 (1-2)
ROMA: Tancredi, Gerolin, Oddi, Boniek, Nela, Righetti, Graziani, Giannini (53′ Conti), Pruzzo, Ancelotti, Di Carlo (67′ Tovalieri). Allenatore: Eriksson.
LECCE: Ciucci (26′ Negretti), Vanoli, Colombo, Enzo, Stefano Di Chiara (I), Miceli, Raise, Barbas, Pasculli, Nobile (65′ Paciocco), Alberto Di Chiara (II). Allenatore: Fascetti.
Arbitro: Rosario Lo Bello di Siracusa.
Marcatori: 7′ Graziani (R), 34′ Di Chiara II (L), 42′ rig. e 53′ Barbas (L), 82′ Pruzzo (R).
Note: Ammoniti Graziani, Conti (R); Vanoli, Raise (L).