«squìnzia: [prob. da Donna Squinzia, personaggio di una commedia di C.M. Maggi (1630-1691) ◊ av. 1750] s.f. • (centr., sett.) Ragazza smorfiosa, dai modi leziosi e civettuoli» (loZingarelli2012, p.2254). Per estensione, squinzio vuol dire anche balordo, strano. Tutte parole adatte a questi tempi maleducati e scombinati.
Scherzandoci sopra, per tempi migliori possiamo avere bisogno di persone “quinzie”, senza S. Insomma, da Squinzi a Quinzi. Nulla di personale contro l’attuale presidente di Confindustria, nonché proprietario del Sassuolo, anzi ritengo che abbia meriti indiscutibili sul piano sportivo: negli anni Novanta con la sponsorizzazione nel ciclismo (mediante il marchio Mapei: per sei anni in testa alle classifiche dell’UCI), più di recente con il Sassuolo portato addirittura in Serie A, vincendo la serie cadetta con 85 punti, e scommettendo negli anni su tecnici giovani (come Massimiliano Allegri, Stefano Pioli, Fulvio Pea ed Eusebio Di Francesco).
Però mi piace pensare che Squinzi non possa essere un segnale di rinnovata fiducia nel futuro, così come è difficile pensare che possa esserlo un settantenne (classe ’43, anche se portati bene). La gioventù, di per sé, non è un valore, e neppure un disvalore; e lo stesso si dica per adultità e senilità. E allora, appunto, via la S: per dare spazio al nuovo che avanza, sotto il nome di Gianluigi Quinzi. Un italiano a Wimbledon (ma c’era chi lo conosceva già da tempo). Oggi sotto i riflettori e con tutti ad aspettarlo, in maniera anche eccessiva; ma è anche comprensibile, con il calcio in bassa stagione, che storie come la sua acquisiscano maggiore visibilità.
A ogni modo, come interpretare questa vittoria? Si può essere disfattisti nel ricordare che Nargiso è stato l’unico altro italiano a vincere Wimbledon Juniores, salvo poi non avere una carriera eccezionale (se non come doppista di Coppa Davis, assieme a quell’Andrea Gaudenzi che in singolo ha avuto anche stagioni interessanti). Oppure si può sforzarsi di guardare oltre, vedendo che la faccia tosta dei ragazzi, a volte, porta a rifiutare l’idea che si possa mai scendere in campo per perdere “di poco”, come sconfitti annunciati; che ci si può far rispettare non con l’orgoglio né con la protervia, ma solo con le proprie forze e il proprio lavoro; e che esiste una generazione di giovani non apatici né svogliati: che sanno sognare mantenendo i piedi per terra, e che hanno voglia di impegnarsi per colmare la distanza che passa tra essere talento e campione. La differenza tra Balotelli e Cristiano Ronaldo: il talento conta molto, ma non è irraggiungibile se non si sviluppa anche la tecnica.
Ma Quinzi non è l’unico alfiere del messaggio: negli ultimi mesi abbiamo avuto una Under21 in piena lotta per la vittoria (finale a senso unico, vero; ma bisogna pur arrivarci, fino alla finale); oppure Bargnani che va a New York (franchigia tanto famosa quanto inconcludente, bisogna pur ammetterlo) e Belinelli a San Antonio (franchigia diventata famosa sul campo, negli ultimi quindici anni), e Datome, miglior giocatore del campionato, che a 25 anni sbarca in NBA con un biennale; e, per rimanere negli USA, possiamo citare il caso di Marten Gasparini, che a neanche 17 anni si appresta a diventare il giocatore europeo più pagato nella MLB (lega statunitense del baseball) con la maglia dei Kansas City Royals, franchigia che punta a rilanciarsi con una infornata di future stelle.
Ora, per parlarci chiaro: se faranno seguire ulteriori successi nelle proprie carriere, questi ragazzi saranno solo l’esempio di come il talento del fuoriclasse possa arrivare in qualsiasi condizione. Ma mi piace pensare che tutte queste storie possano essere guardate dall’alto da Luca Parmitano, primo astronauta italiano a svolgere attività extra-veicolari. Con la serenità per un sorriso (“Esco a fare due passi” ha scritto su un post-it prima del grande momento) e una dedica “a tutti gli italiani e all’Italia, che mi ha permesso di vivere questa straordinaria esperienza”.
Non lo nego: non siamo messi bene. Però penso che Parmitano sia l’esempio da seguire: atleta spaziale (tutti gli astronauti lo devono essere), pilota con Medaglia d’Argento al Valore Aeronautico, tra i pochi ad avere passeggiato tra le stelle, e ancora capace di ricordare che lo ha potuto fare grazie alla cooperazione di un paese intero. Quello stesso paese che si divide per ogni nonnulla e neanche si accorge di quando i propri marchi di eccellenza (Loro Piana è solo l’ultimo in ordine di tempo) vengono venduti e perduti.
Candido Cannavò, prima di morire, voleva realizzare un giornale di sole notizie positive. Forse perché di minore quantità, aveva pensato a un settimanale, e non a un quotidiano; rimane il fatto che ancora non se ne è vista traccia. E invece dovremmo crearlo, quel giornale, partendo proprio da queste storie: per recuperare senso di appartenenza, per affrontare le avversità grazie a esempi positivi, e per ricominciare a sognare, prima ancora di vincere.