La partita di… Paolo Chichierchia

E con oggi sono trentuno anni, da quella sera estiva dell’11 luglio 1982.
Inevitabile, ad ogni anniversario, un commento sui giornali specializzati e non. Del resto, sono usciti libri e biografie dei protagonisti di quella partita, è stata citata in film e serie tv, rilevante come un episodio generazionale e non a caso. Perché Italia –Germania 3-1, finale vittoriosa del Mundial di España ’82, rappresentò un evento conficcato nella storia popolare del Paese, un preciso momento in cui i cascami degli anni ’70 sparecchiavano il campo dall’orizzonte ottico degli italiani, per lasciar posto ad una nuova stagione sociale, per alcuni versi più leggera e disimpegnata, per altri più superficiale ed edonistica.
Ma agli occhi di un bambino, la vittoria di quel Mondiale rappresentò un sogno che si stava verificando “qui ed ora”, leggero e spensierato come può esserlo l’età, a dieci anni.

L’attesa non cominciò all’alba quella giornata, ma molti giorni prima, esattamente nel giorno della vittoria per 3-2 contro il Brasile dei fenomeni, impresa che aveva autorizzato a pensare quanto precedentemente non poteva nemmeno essere preso in considerazione. Dal tacito pensiero collettivo “oggi finiscono i Mondiali” si era passati ad un entusiastico e condiviso “Allora possiamo vincere!”, grazie al miracolo di Paolo Rossi e compagni, redivivi a sorpresa, in un giorno storico che, laicamente, potremmo indicare come un’autentica pasqua calcistica. La semifinale contro la Polonia, fu la pasquetta alla quale stavolta erano tutti preparati.

Nella calda giornata estiva dell’11 luglio 1982, nelle località balneari agropontine, tutto scorreva felice come le biglie con le facce dei ciclisti schiccherate sulle piste di sabbia; ma tra una Gazzetta dello Sport e un ritornello dei Righeira, l’attesa per la serata iniziava ad essere visibile in tutto e in tutti: perché la Signora De Rosa, fino ad allora intenta soprattutto a protestare mentre tiravamo pallonate al suo cancello, improvvisamente era diventata una ‘pasionaria’ del calcio e mentre sfornava teglie di pasta al forno destinate ad alimentare la serata, andava dicendo a tutto il vicinato che quella sera ci sarebbe stata una grande festa in onore degli azzurri.
E poi l’Inno di Mameli. Mica capitava tanto spesso di ascoltarlo, in quegli anni. Anzi, per un bambino fu una vera e propria scoperta. Così come le bandiere tricolori appese ai balconi. D’improvviso si partecipava tutti insieme, ad un evento calcistico che non poteva essere più trattenuto nei salotti domestici. Una novità anche questa, come del resto i caroselli di 500 imbandierate e i bagni nelle fontane, dopo le ultime vittorie.
Alla faccia della scaramanzia, qualche manifesto listato a lutto che annunciava l’estinzione della Germania Ovest, era già comparso sui muri. I tedeschi avevano dominato il calcio degli anni ’70, sia a livello di club che di Nazionale (un mondiale in casa nel ’74 ed un Europeo, a Roma, nell’80). Ma Hrubesch, Breitner, Kaltz e soci sembravano ormai al crepuscolo, divisi in gruppi interni e spompati dai supplementari con la Francia. Il vero pericolo, si chiamava Karl-Heinz Rummenigge, teutonico cannoniere, supportato da “gambe storte” Littbarsky.

Sul far della sera – ma che ancora non faceva buio essendo luglio – accompagnato da mio padre, prendemmo posto sulle ultime due sedie libere, in un bar che aveva deciso di abbarbicare una tv su un mobile più alto, per vedere collettivamente la partita, al fresco sotto i portici. Nando Martellini comunicò le formazioni e, con lo stile asciutto che lo contraddistingueva, accompagnò l’enfasi della partita senza accentuarla. Nemmeno quando, nel primo tempo, Bruno Conti fu abbattuto in area da Briegel e Cabrini si portò sul dischetto. “Fuori”, commentò serafico Martellini. Si continua, confidenti ma attenti. Come quando Collovati, fino ad allora forse il meno esaltato dell’undici azzurro, firmò la sua presenza in quel giorno storico con un guizzante salvataggio, recuperando in spaccata un rimpallo a due passi da Zoff, nell’unica occasione vera avuta dai tedeschi. Intanto, Ciccio Graziani, fermato dopo pochi minuti da un infortunio alla spalla, aveva lasciato il posto a “Spillo” Altobelli e Lele Oriali aveva già incassato una dozzina di falli dal feroce mediano Stielike. A fine partita, saranno un cinquantina o giù di lì, come non può fare a meno di notare chiunque oggi riveda quella partita.
Nel secondo tempo però, bisognava chiuderla, quella partita. Bearzot nello spogliatoio avrebbe saputo sbloccare i meccanismi della squadra azzurra, cancellando le ombre del rigore sbagliato e indicando la via da seguire a “MaraZico” Bruno Conti, a Pablito e a tutti gli altri.
Così, dopo dieci minuti, fu un difensore, Claudio Gentile, a mettere in mezzo un pallone che arrivò dritto in area di rigore, dove si catapultò in tuffo spericolato proprio il bomber degli ultimi cinque centri, Paolo Rossi, portando a sei il proprio bottino di capocannoniere, ma soprattutto avviando l’esplosione di gioia che inarrestabile travolse tifosi e spettatori, Presidenti della Repubblica amatissimi e cronisti, bambini e portici tutti.

Il resto è storia. Il raddoppio di Tardelli, l’urlo liberatorio, il sigillo di Altobelli e il gol della bandiera di Breitner. Ma una cosa oggi la posso dire: dopo l’uno a zero, nessuno aveva più dubbi sull’esito della partita. Troppo debordante quell’entusiasmo a lungo trattenuto, per essere ricacciato indietro.
L’Italia Campione del Mondo, come tutti i nati negli anni ’70 sanno, giocava con Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea; Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Quella sera, al posto dello squalificato Antognoni, giocava Beppe Bergomi, uno che divenne Campione del Mondo a soli 18 anni. Ne aveva 40 invece il capitano, Dino Zoff. Proprio come oggi quel bambino (tranne quando ripensa al Mondiale dell’82).