Home » Chi perde non piange

Volge al termine la Confederations Cup, nell’edizione 2013. Competizione strana, dalla storia ambigua e certo meno affascinante di altre, ma tant’è.

Interessante come poche è però quella di quest’anno, se è vero che il mondiale 2014 in Brasile rappresenta un po’ uno spartiacque per lo stato di salute del movimento. Dopo l’edizione in Sud Africa, infatti, si ritornerà in una delle patrie del calcio, dove il football è certo una religione, o quasi.

Quasi, perché in fin dei conti spero non si smetta di parlare di ciò che c’è stato attorno a questa coppa. La disperazione della gente, la sua rabbia, l’emergenza soprattutto sociale: lasciamo queste cose a chi se ne occupa nello specifico, ma giuriamo davanti allo specchio che non ce ne dimenticheremo. Altrimenti i dribbling sono inutili.

Veniamo al campo, vediamo al calcio: Spagna-Brasile era certo il pronostico della vigilia, ma le due regine ci sono arrivate con fatica.

È un Brasile diverso dalle corazzate di un tempo, è un Brasile meno eurocentrico che in passato. A me dispiace meno che ad altri: il talento c’è, seppur giovane. Questi ragazzi vanno svezzati, vanno cresciuti, vanno incattiviti: l’obbiettivo è il 2014, la Confederations è l’occasione di fare legna. Farsi muscoli, crescendo e incattivendosi (in senso sportivo).

La Spagna giocherà la sua ennesima finale, anche se nella passata edizione era scivolata prima: che fatica e che stress contro l’Italia, potenza incerottata ma mai doma nel panorama internazionale. La semifinale di Fortaleza è stata dolceamara: i campioni di tutto hanno vacillato, le fondamenta scricchiolavano, ma all’Italia è mancato il colpo di reni.

Certo, per onestà intellettuale bisogna ricordare che molti (attuali) denigratori del tiqui-taca hanno iniziato a considerare monocorde (e noiosa, per lo spettatore non filoiberico) questa filosofia solo quando sulla strada della Spagna si è trovata l’Italia, come nazionale e come club (contro il Barcellona). Poco importava prima (per alcuni, sia chiaro), perché Spagna e Barcellona erano belle ed efficaci, erano l’essenza del calcio e tutto il resto.

Vox populi, morali e giudizi flessibili, insomma. Da che mondo è mondo è così e, tornando strettamente al rettangolo di gioco, gli stessi spagnoli sono meno in salute che in passato ma occhio a darli per morti prima della finale: Euro 2012 insegna, anche lì parevano in calo.

I grandi non abdicano facilmente, certo la “coppa delle confederazioni” non è la sede giusta: vincere piace e fa bene, perdere riduce l’importanza dell’impegno, bello è esserci stati in generale. Anche dopo un 2012-2013 stancante, anche con una formula che esclude selezioni interessanti quali Germania e Olanda.

Vinca il migliore, chi perde non piangerà. E fra un anno la musica sarà diversa, fra un anno agli inni nazionali un po’ di cuori tremeranno di più.