Home » La madre di tutte le sconfitte

Va in scena stasera Brasile – Uruguay, semifinale della Confederations Cup, torneo che la FIFA da anni sta cercando di promuovere verso il proprio target di appassionati del pallone, con risultati comunque ancora altalenanti, vista anche la formula annacquata che, come da prassi in uso anche nelle Coppe, bandisce gli scontri diretti in favore di gironi a scartamento ridotto con incontri pompati più dal marketing che dal soffio vitale della disfida senza appello.

Tuttavia, se c’è un fantasma che più di altri si aggira nella storia del calcio, è proprio quello di Brasile – Uruguay, e qualunque ottuagenario carioca, anche a distanza di 63 anni non può evitare un fremito a rammentarlo.
Successe il 16 luglio del 1950 allo stadio Maracanà, oggi ristrutturato per il secondo mondiale brasiliano e allora appena inaugurato per il primo. Non si trattava di una vera e propria finale, ma dell’ultima partita di un Mondiale caratterizzato da una formula con un girone finale che vide nell’ultima giornata proprio le prime due sfidarsi per il titolo. Il Brasile, che aveva vinto le precedenti partite per 7-1 con la Svezia e 6-1 con la Spagna avrebbe vinto il suo primo titolo anche con un pareggio.
Gli spettatori paganti risultarono ufficialmente 173.850, quelli presenti 199.854: una persona su dieci tra gli abitanti di Rio de Janeiro. Nel raggiungere lo stadio, il pullman della Nazionale uruguayana attraversò la città “come un carro funebre che incrocia per caso una festa”. Allo stadio, erano già appesi i cartelloni di ringraziamento per i Campioni del Mondo.
Al 46° del primo tempo, Friaca aprì le danze della torcida. Il sogno si contornava di realtà.
Il capitano urugaiano Obdulio Varela suonò le trombe della riscossa, urlando nella prematura festa brasiliana “La Celeste!”. Il fuoriclasse Pepe Schiaffino, firmò il pareggio.
Poi successe l’irreparabile. Alle 16.38, Ghiggia si materializzò sulfureo nell’area di rigore brasiliana e convertì i contorni di quel sogno in un incubo collettivo. Sette furono i suicidi addebitati a quella sconfitta. Rimet consegnò la Coppa quasi casualmente a Obdulio Varela, senza una vera cerimonia perché tutte le guardie che avrebbero dovuto comporre il picchetto d’onore, erano in lacrime. Per mancanza di partitura – non era stata nemmeno portata – non fu eseguito nemmeno l’inno dell’Uruguay.
La polemica successiva additò come principali responsabili i neri Barbosa (il portiere), Juvenal e Bigode, facendo riaffiorare pregiudizi razziali (spazzati via otto anni dopo dal Brasile di Pelè e Garrincha).

Di fronte alla portata della “Waterloo dei Tropici”, “la nostra Hiroshima”, il “Maracanazo – il disastro del Maracanà”, impallidiscono tutte le più grandi sconfitte degli altri, da quella ungherese ai Mondiali del ’54 a quella olandese del ’74.
E sembrano più piccole anche le sconfitte delle squadre nostrane, quelle della Juventus con Amburgo, Borussia Dortmund e Real Madrid, quelle del Milan con Olympique Marsiglia e Liverpool, quelle della Roma con Lecce e (sempre) Liverpool o quella dell’Inter con la Lazio.

Nello sport, si può anche perdere, fa parte della sfida.
Ma per fortuna comunque vada, quella di stasera è solo una semifinale di Confederations Cup.