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Siamo alle solite. Facciamo quelli forti contro il Messico, giochiamo con sufficienza contro il Giappone e poi, quando ci sarebbe da dimostrare tutta la nostra bravura — e quale migliore occasione di Italia-Brasile — ce la facciamo sotto.

Sì, è stata paura, la nostra. Paura di affrontare una nazionale il cui nome, evidentemente, mette ancora in soggezione. Eppure, per quanto la classifica FIFA che lo vede all’insolito 22° posto sia da prendere con le molle, questo è il Brasile meno forte degli ultimi 30 anni. Non ci sono i Falcao, i Romario, i Bebeto, i Dunga, i Ronaldo. C’è solo Neymar lì davanti. Il fatto che la difesa sia il reparto più forte — grazie all’individualità di Thiago Silva, non certo per David Luiz o Dante — doveva, forse, farci entrare in campo con un altro spirito.

Ma niente, non c’è stato verso. Il panico si è impossessato di noi. I primi quindici minuti, poi, sono stati eloquenti, con i nostri centrocampisti a giocare a nascondino dietro gli avversari per non farsi passare il pallone dai compagni. E si potrebbe anche cadere nella tentazione di fare una battuta sui giramenti di testa di Montolivo, uscito a metà primo tempo.

Non possiamo nemmeno dire che è colpa dell’inesperienza, perché sono stati proprio quelli con meno partite internazionali sulle spalle come De Sciglio, Candreva e Giaccherini a giocare con la giusta sfrontatezza in una gara che, fidatevi, poteva finire in maniera molto diversa.

Il calcio non è uno sport per signorine, si dice. Il calcio non è uno sport per timorosi, ribatto io.
Entrare in campo con rispetto dell’avversario è un conto, giocare con il terrore negli occhi che nemmeno Ibrahimovic in una semifinale di Champions no, è un suicidio sportivo. Non siamo una squadra così scarsa come ci potrebbero dipingere i sette gol presi nelle ultime due partite. Siamo più forti anche di quello che gli stessi giocatori pensano.
Ma finché un Chiellini o un Bonucci avranno paura di un Fred o finché Aquilani, Montolivo e Marchisio saranno angosciati dal pressing di Hulk, Luiz Gustavo e Hernanes, allora le nostre campagne internazionali — che siano Europei, Mondiali o Confederations Cup — verteranno tutte sullo stesso risultato: la sconfitta.

La nazionale campione del Mondo del 2006 non era più forte di questa, ma aveva una testa e una mentalità che distruggeva gli avversari psicologicamente man mano che passavano i minuti. Dopo sette anni ci ritroviamo una squadra azzurra che ha paura anche della sua stessa ombra, insicura di iniziare forte la partita contro il Brasile o la Spagna di turno.

Spero di essere contraddetto dai nostri azzurri non più tardi di giovedì, quando incontreremo in semifinale i campioni di tutto con la maglia rossa.
Ma se Buffon e compagni non scenderanno in campo con un’altra mentalità, noi tifosi finiremo per vedere esultare gli altri, come spesso accade.
Ragazzi, mai una gioia.