Restiamo amici

Cavani dacci retta, vattene in fretta”. L’eloquente striscione, dai toni neppure tanto simpatici, è comparso nei pressi del San Paolo, a sancire la rottura tra una parte della tifoseria e colui che negli ultimi 3 anni di campionato ha apposto il suo sigillo su 78 reti segnate dal Napoli.
El Matador, protagonista di cori allo stadio, canzuncelle lanciate al vento dalle autoradio dei tifosi, fautore di gioie in campionato e sogni di coppa, ha deciso di proseguire altrove la propria carriera, lasciando al proprio destino da invendute le statuette di San Gregorio Armeno, che non avranno il prestigio di un Pallone d’oro, ma rappresentano comunque uno dei massimi riconoscimenti che la cultura materiale di un popolo può tributare ai propri eroi prediletti.
Prima di lui, destino affine per l’altro eroe partenopeo degli anni 2000, El Pocho Lavezzi.

Destino analogo anche per un altro “Top Player”, tra i rari che ancora popolano la Serie A. “Vendete il bua”, recitava qualche giorno fa, con più ironia, uno striscione fiorentino rivolto a Stevan Jovetic, protagonista in maglia viola nelle ultime stagioni, a cui oggi non si perdonano gli infortuni facili.

Eppure, né l’uno né l’altro è nato con quelle maglie addosso, ma hanno lasciato, ben giovani, il proprio Paese, per andare a far fruttare altrove il proprio talento e la propria voglia di misurarsi con opportunità inesistenti in patria. Forse tendiamo a dimenticarcelo troppo in fretta, nell’ansia insolita di assimilare lo straniero nei propri riferimenti territoriali più cari. Certo, le loro partenze non sono state dettate dalla fame o dalla necessità di sfuggire a guerre o persecuzioni, ma comunque se si sono mossi da casa, è stato perché un procuratore si è preso cura del loro talento, ha fiutato un affare e lo ha condotto a termine con reciproca soddisfazione di tutte le parti. Se il livello del proprio campionato o l’offerta economica interna fosse stata capace di trattenerli nei propri confini, magari ci sarebbero rimasti volentieri (Pato, profittando delle mutate condizioni di stipendio maturate in Brasile, non ci ha pensato su molto, a tornarsene a casa).

E i casi sono molti, da sempre. Dagli striscioni attuali pro e contro De Rossi agli insulti riservati dai tifosi dell’Inter a Ronaldo (“Ronaldo, a Milano nemmeno da turista”) o da quelli della Roma ad Agostino Di Bartolomei (che non poco ne avrà sofferto, a ripensarci oggi) o a Cafu, fino ai fischi dei tifosi del Milan per Leonardo (con tanto di striscione “Leonardo Giuda”) o a Paolo Maldini.
Forse dovremmo accettare con più sportività il fatto che un calciatore svolga il proprio mestiere con passione e viva con coinvolgimento la propria avventura in una squadra e ciononostante, possa un giorno pensare di separare la propria rotaia dal binario percorso insieme, in cerca di nuove destinazioni e stimoli differenti.

Non giriamoci intorno, succede così anche nella vita di tutti i giorni. Le persone si trovano, fanno un pezzo di strada insieme e magari un certo giorno si lasciano. Ed è proprio a questo punto, che bisogna avere la maturità di sbollire la delusione, accettare il momento storico e guardare avanti, che tanto, chiusa una porta, si apre un portone. Almeno quando si gioca, cerchiamo di imparare come si prendono le distanze da una faida, da una vendetta amorosa o da una qualunque reazione violenta. Pensa che bello, se fosse il calcio ad indicarci la prospettiva storica.

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Paolo Chichierchia