«Satura quidem tota nostra est», affermava un famoso romano. A rivendicare il primato storico e pratico su un genere letterario. Ogni popolo ha del resto le sue vanterie, frutto a volte di realtà confermate dalla storia, o anche di luoghi comuni autoinflitti.
I primati di Roma mi sono venuti in mente pensando alla Roma, giustappunto. Annunciato Rudi Garcia, Facebook, Twitter e forum si rincorrevano al suono di “chi era costui” (come si trattasse di un Carneade qualsiasi), o al grido di “era meglio un italiano”. Perché è vero, la conferma è soprattutto empirica, l’Italia ha la vanteria di produrre i migliori allenatori di calcio del mondo.
Non parlo dei 60 milioni di ct della nazionale che ogni due estati riempiono bar e piazze, ma dell’intima convinzione che, quando si tratta di guidare una squadra di calcio, l’italiano abbia qualcosa in più. A metà fra realtà storica e difesa da una presunta esterofilia, si snocciolano i nomi di Capello, Trapattoni, Mancini, Spalletti, Ancelotti e chi più ne ha più ne metta. Tutto vero? Sì ma anche no, verrebbe da dire, con espressione dubbiosa ma non ignava.
Sì perché Coverciano produce uomini di calcio importanti, preparati. Gente tutta d’un pezzo, che anche attraverso la gavetta fra giovanili e serie minori ha un’idea di calcio organica e completa. In particolare, vince nel calcio di oggi chi, oltre ad avere una rosa adatta, ha pronti i piani B, C, D fino alla Z. Vince chi varia tatticamente, chi si adatta a ciò che ha a disposizione, chi trova la giusta mistura fra credo tattico e flessibilità.
Quanto fatto da Prandelli lo scorso Europeo, da questo punto di vista, è paradigmatico: il dovere più importante è quello di valutare ciò che si ha, fare i conti e non stravolgere i calciatori, chieder loro cose grandi ma umane. Quindi sì, l’Italia produce buoni e più che buoni allenatori, alcuni dei quali sono superlativi.
La fama dei Mancini o degli Ancelotti, sia o no giustificata dai loro successi da giocatori e allenatori, porta i grandi investitori del calcio moderno a sceglierli per guidare corazzate (con le quali è più facile vincere). Vero che ci sono i Di Canio che partono dal basso senza corazzate, che la gavetta la fanno in altre lingue, ma spesso l’allenatore italiano fa chic, è scelta esotica, è scelta di alto rango.
Tendenzialmente, in Italia si guarda agli emigrati solo per i successi: la critica al City di Mancini, ad esempio, ha trovato eco solo fra juventini e milanisti (volti a limitare l’importanza dei successi manciniani ai tempi dell’Inter, naturalmente), mentre sui non pochi errori del suo periodo a Manchester dalle nostre parti si preferisce tacere. Perché l’idea che l’allenatore italiano sia bravo in quanto tale vale sempre, comunque. E non va combattuta.
L’Italia insomma è terra di allenatori bravi e meno bravi, non meno di altre. Certo, rispetto ad alcune altre nazioni è patria di strateghi superiori, ma il pregiudizio è dietro l’angolo. E qui vengo a Garcia, Carneade solo per chi non segue il calcio internazionale, interessantissimo protagonista del calcio francese negli ultimi tempi.
Calcio in crescita, quello d’oltralpe: da lì il nuovo condottiero della parte giallorossa della capitale. È pronto alla sfida? Reggerà la pressione, dove Luis Enrique, Zeman e Andreazzoli hanno toppato? Il suo credo tattico saprà essere flessibile al punto giusto?
Ai posteri, o magari ai giornalisti sportivi, la sentenza. Ad una condizione però: che non si dica era meglio un italiano. Di bravi allenatori ne abbiamo tanti, fra Serie A e Serie B ma, udite udite, ce ne sono anche al di là delle Alpi. Compito di pubblico e critica sarà giudicarli non in quanto stranieri, ma in relazione a risultati e coerenza del progetto: Bonne chance Monsieur Garcia.