NBA chiama mondo: la ricetta anticrisi

Probabilmente vi dovremmo parlare ancora delle bandiere trasformate in banderuole (anzitutto dalle società) oppure orgogliosamente sventolate malgrado tutto: è la differenza che passa tra l’addio ad Ambrosini e la conferma di Javier Zanetti. Volevo dire: l’abisso che passa tra i due casi. Oppure Angelo Ogbonna pronto a fare il salto della barricata in quel di Torino (con il Toro che, nell’indirizzo web di questo articolo, viene simpaticamente rinominato “toriino”, una specie di abbreviazione di un famoso mafioso, anzi “mafiioso”). Il calciomercato ancora non decolla; e dubito che potrà mai farlo se un Rudi Garcia viene definito come «una sintesi» tra Luis Enrique, Zeman e Andreazzoli: come a dire che in tre non ne hanno fatto uno, negli ultimi due anni.

Oppure ci sarebbe abbondante spazio per decidere per chi tifare: meglio i Pepepepepe o i Quaquauquaqua? La domanda è intrigante, un po’ come chiedersi «pandoro o panettone?» a metà giugno; magari qualcuno seguirà la questione e potrebbe scapparci un derby, se possibile con contorno di risse. Io dico la mia: mancando pure Qui(quiuquiqui) e Quo(quouquoquo), parteggio direttamente per i Pepepepepe. Che poi sono una squadra composta da due volte e mezzo un difensore del Real Madrid particolarmente noto per i suoi interventi chirurgici (lo conoscono benissimo anche alle macellerie locali e all’intero corpo ospedaliero di ortopedia), forse pronto a esportare le sue qualità Oltremanica. Fosse un attore, gli diremmo «Break a leg! (hopefully not yours)».

Ma il tema dell’infortunio ci offre il gancio per parlare di qualcosa di più serio e sensato. E per cambiare sport. Parlare di basket, in questi giorni, è tutt’altro che facile: sappiamo già che i derby greci sono da codice penale (ironia della sorte: specie quando si giocano al Pace e amicizia), ma per quanto ci riguarda abbiamo ancora negli occhi le monetine di Siena (non prive di conseguenze) e i fatti di gara7 a Varese. E ci sarebbe già da dire sull’amnistia camuffata in favore di Brown e Hackett. Insomma, fattacci e pastette: meglio guardare oltreoceano.

Perché, diciamocelo chiaramente, la Finale NBA potrebbe dare una lezione a tutto e a tutti: al calciomercato, ai giornalisti, ai politici e allo sport a tutte le latitudini. Quando leggerete questo articolo, sarà già noto l’esito di gara4; per mia sfortuna, mentre scrivo sto ancora guardando in una sfera di cristallo che non vuole saperne di darmi il risultato (malgrado a una certa ora della sera la SNAI abbia già chiuso). Il punto, però, è che abbiamo San Antonio ancora in finale, e in vantaggio per 2-1 dopo aver rovesciato il fattore campo in gara1, e in gara3 aver seppellito Miami sotto una gragnuola di triple (16 su 32, il 50%: inusuale per una finale a questi livelli).

Qual è la lezione? Ne abbiamo più d’una. La prima: San Antonio, prima che una squadra di atleti ubernormali, è ormai una squadra fatta di esperienza e competenza. Pensiamoci bene: in giorni in cui si ribadisce che la gioventù è un valore (non si vede perché: è di valore ciò che è valido, non ciò che è giovane), in cui inesperienza e incompetenza diventano una bandiera politica, è un monito da non sottovalutare. Magari perderanno tre partite di fila e addio all’anello (ancor di più con Tony Parker a mezzo servizio); ma nel frattempo sono lì a giocarsi tutte le proprie opportunità.

Seconda lezione: competenza nei ruoli chiave. Un regista, un’ala (di mano buona) e un centro. Un giocatore, un ruolo; una organizzazione esatta, in cui ognuno conosce il proprio ruolo e i propri limiti. È anche alla luce di questo che finora i very Big3 sono sembrati loro (e non Lebron James, Wade e Bosh, i cui ruoli in campo difatti sono ben più sfumati). Tre leader provenienti da posti completamente diversi (Francia, Argentina, Isole Vergini Americane) contro tre statunitensi “purosangue”: contro ogni chiusura, perché il talento non conosce confini.

Terza e ultima lezione: a San Antonio sanno che non conta il divario nella singola partita (Sassari-Cantù insegna), quanto portarne a casa quattro; e sanno di essere soltanto a metà strada. Fine gara3, la scena non è quella di energumeni palestrati che si sbattono petto a petto e si producono in spacconate: entusiasmo vuol dire anche un cinque alto e festa finita, sotto con la prossima. Dove non arrivano i muscoli, arriva il cervello, arriva il gruppo. La differenza tra il semplice carisma e la leadership, e una determinazione che va oltre i muscoli mancanti e gli anni di troppo.

Perché sono convinto che la reazione sarebbe stata questa anche se la vittoria fosse arrivata di un punto, sulla sirena,con un canestro da sedici metri segnato da un Matt Bonner entrato solo per disperazione. Contano l’obbiettivo, la fame e la concentrazione. Non certo l’età, quanto la maturità. Quella che troppi non sanno dimostrare, a tutti i livelli: dalle sovraimpressioni della RAI al calciomercato al tifo sugli spalti. A chi ha piazzato quei i riflettori al PalaTiziano.

Compiti per l’estate: rimediare, e prendere esempio soltanto da chi sa stare al proprio posto, sa far uso del raziocinio e ottenere risultati. Perché d’estate tutti sono elettrizzati per la stagione entrante, ma pochi si rendono conto di quale sarà veramente. La crisi è anche qui: se la vita non marcia al giusto regime, è perché non siamo stati capaci di riconoscere il valore delle cose davvero importanti. Scegliamo meglio: il trucco è tutto qui. Ce la possiamo fare.

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Pietro Luigi Borgia