“Maradona, sì megl’e’ Pelè”, il ritornello diventato proverbiale nel momento in cui Diego Armando Maradona sbarcò a Napoli nell’ormai lontano 1984, accolto da una folla in festa che stava imparando a sognare, sarà risuonato anche in qualche adagio catalano, quando pochi giorni fa il Nuovo Fenomeno del calcio mondiale pronunciava le sue frasi di frastornata circostanza davanti al pubblico di bocca buona del “Nou Camp”.
Lo splendente soggetto dei desideri è un brasiliano che promette di superare la fama di Pelè e stavolta il delfino di “O Rey” si chiama Neymar da Silva Santos Junior, anche per lui un passato nel Santos alle spalle, nonostante i 21 anni e un’attesa mediatica che già bulimizza l’aspettativa di carriera, come sistematicamente è accaduto ai previsti eredi dei massimi campioni tanto brasiliani, quanto argentini.
Da parte sua, Pelè, dopo aver coccolato il campioncino mentre s’irrobustiva, lo ha già scaricato, rimproverandogli di pensare più ai capelli che alla maglia, mentre il Santos, cogliendo al volo l’occasione di rivincita edipica, ha fatto sapere alla propria vecchia stella che Neymar è pronto ad eclissarlo, anzi è già più forte di lui, che non ha mai dovuto misurarsi con i moderni centrali difensivi, robusti, atletici e veloci.
Se l’analogia con l’allunaggio di Maradona a Napoli può reggere confrontando il clamore mediatico, ben diversa però è l’abitudine alla vittoria che i soci del Barcellona Football club hanno metabolizzato nella propria storia. Da Maradona stesso, ai connazionali Romario, Ronaldo, Rivaldo e Ronaldinho (e qui, se mettessimo quattro giudici, probabilmente avremmo quattro esiti diversi – io voto per Romario), la crema (catalana) del calcio ha già indossato quella maglia e la bacheca racconta già di trofei leggendari. Per colui che a tredici anni fu designato come l’erede di Robinho al Santos, oggi l’eredità ha ancor più spessore.
La macchina da gioco catalana, al netto della sconfitta patita in stagione dal Bayern Monaco, è ancora prossima all’asintoto della curva gaussiana stilistica, una messa a fuoco del calcio totale olandese affinata nei decenni dalle esperienze tecniche di Michels, Cruyff, quest’ultimo non a caso ancora oggi sacerdote avente diritto di ultima parola sulla custodia del nume calcistico municipale.
“La squadra orchestra … è soprattutto questione di amalgama: per sviluppare la metafora musicale, un team di ‘calcio totale’ cerca un’orchestrazione più polifonica che omofonica, più legata all’armonia e al contrappunto che alla melodia: l’assolo ha senso solo se in relazione all’ensamble”. Così scrive Sandro Modeo nel suo bel saggio “Il Barca”.
E se Messi è solo parzialmente una deroga a questa filosofia, essendo cresciuto nella Masia catalana, respirandone principi e filosofia (tanto da lasciar dubbi di rendimento, una volta svestita la maglia supereroica del Barcellona per quella della propria nazionale), per Neymar la sfida è quella di saper coniugare i propri arzigogoli stilistici con una visione già sedimentata della biologia calcistica. A Ibrahimovic non è riuscito.
Dal nostro posto di spettatori italiani, a cui oggi sembra preclusa la prima visione di questi talenti, ci affacceremo a guardare, con la curiosità di vedere se sia possibile intessere calcisticamente, nello stesso mosaico, il verdeoro con il blaugrana e una spruzzata di arancione. Come nel gotico mediterraneo di Gaudì.