Nel calcio l’unico colore che conta è quello della maglia
Ci risiamo. Periodicamente ritorna, come i peggiori incubi. Come un nemico difficile da sconfiggere o una malattia contro la quale non si è ancora trovato rimedio. In queste pagine, più volte, se n’è parlato e non ci stancheremo di farlo. Razzismo, xenofobia, discriminazione. Chiamatelo come volete, tanto lui si presenta sempre con la stessa faccia, senza vergogna. È fra le piaghe più becere della società e, chissà perché, oramai fa irruzione abitualmente negli stadi di calcio. Quasi come se il campo da gioco fosse il terreno più fertile per la sua proliferazione.
“Bisogna sconfiggere il razzismo”, questo è il solito ritornello che passa di bocca in bocca: dai vertici sportivi e calcistici internazionali, a quelli italiani, dai presidenti delle società, agli stessi giocatori. Ma di concreto, cosa si fa? Poco e niente. Solo tante parole e fiumi d’inchiostro, che non scalfiscono un nemico così forte. Intanto, il razzismo si diffonde e lo fa in maniera direttamente proporzionale al numero degli idioti che si rendono protagonisti di gesti di discriminazione. Ciò che è successo a Kevin-Prince Boateng a Busto Arsizio e i “buu” rivolti a Balotelli durante l’ultima di campionato fra Milan e Roma sono solo le ennesime scene di un film già visto. E le reazioni di Blatter, che dall’alto della sua poltrona schiaccia “play” e fa partire un nastro registrato per l’ennesima volta, ci fanno pensare che i potenti, in realtà, sono impotenti.
Proprio oggi, però, il comitato esecutivo della Fifa, riunitosi alle isole Mauritius, ha approvato una “Risoluzione sulla lotta contro il razzismo e la discriminazione”, che prevede, per gli episodi meno gravi, avvertimenti, multe alle società o gare giocate a porte chiuse; mentre dinanzi a pesanti casi di razzismo, il rischio è quello di retrocedere o di essere estromessi dalle competizioni.
Bene, qualcosa si muove. Ma siamo sicuri che ai tanti idioti che animano le gradinate importi qualcosa? I veri tifosi, si sa, sono altri. Può forse una società calcistica assumersi l’impegno di educare e sensibilizzare i propri sostenitori (o pseudo tali)? Evidentemente, no. Serve un controllo maggiore sugli spalti, bisogna individuare i responsabili, dar loro un nome e un cognome e, se necessario, punirli. Come avviene normalmente fuori da quella zona franca che è lo stadio di calcio.
Poi ben vengano le iniziative come quella di poche ore fa al Dall’Ara, che ha preceduto il fischio d’inizio dell’amichevole fra la Nazionale e il San Marino. Un messaggio breve e diretto, letto dai due capitani, per ribadire il secco “no!” del mondo del calcio al razzismo. Il tutto davanti al ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge.
Adesso, alle belle parole devono seguire i fatti. Siamo fiduciosi che la società civile, che abbiamo messo su con tanta fatica, non si lascerà travolgere da questi deplorevoli atti di razzismo. E in attesa di un segnale forte da parte delle nostre istituzioni, ci consoliamo con chi già combatte questo male, come Lilian Thuram, che nel 2008 ha creato una fondazione e recentemente ha pubblicato un libro (Le mie stelle nere. Da Lucy a Barack Obama) allo scopo di educare le nuove generazioni. La società del futuro.
Fra pochi giorni al via la 19ª edizione dei campionati Europei Under 21. Si giocherà in Israele, una terra con tante contraddizioni. Numerose critiche sono giunte all’Uefa per la scelta del paese ospitante. La risposta migliore, finora, l’ha data Guy Luzon, giovane cittì della Nazionale israeliana Under 21, che, chiamato a descrivere i punti di forza della sua selezione, ha risposto: “Abbiamo un mix di giocatori ebrei, arabi, drusi, etiopi e russi. Differenti tradizioni e differenti culture. Ma siamo una squadra unita e giochiamo assieme con grande armonia”.
E bravo Guy, tu, il tuo Europeo, l’hai già vinto.