Dura lex sed lex
Lasciare una squadra dopo averla portata sul tetto del Vecchio Continente: chiedere a Heynckes come si fa. Lui, tecnico fresco campione d’Europa, stringerà la mano ai suoi uomini e saluterà la dirigenza: andrà in pensione, e se ne andrà da vincente. Lui, che lascerà da numero uno ma stavolta per sempre: non come nell’oramai lontano 1998, quando grazie al gol di Mijatovic il suo Real Madrid batté in finale la Juventus di Lippi, che in squadra aveva gente del calibro di Del Piero, Zidane, Inzaghi, Davids, Deschamps, Conte. In quell’occasione, Heynckes lasciò da campione d’Europa il posto a Hitzfeld, e dopo un anno sabbatico approdò al Benfica, proseguendo la sua carriera di allenatore. Carriera che adesso, nel 2013, può dirsi invece bella che conclusa: in quel di Londra, nel meraviglioso stadio di Wembley, la ciliegina sulla torta d’addio l’ha messa Robben. E non poteva non metterla lui.
Quel Robben che se guarda al passato recente intravede solo nebbia, tanta nebbia. Dalla finale di Champions 2010 con l’Inter – persa – alla finale del mondiale 2010 in Sudafrica – persa, con la sua Olanda, con tanto di errore grossolano sotto porta – alla finale di Champions dello scorso anno con il Chelsea – indovinate? Persa, con suo errore dal dischetto nei tempi supplementari… – la tensione, la preoccupazione, la paura di un’altra beffa in extremis, era tanta nel fuoriclasse olandese. Tant’è che un’immagine, alla fine del primo tempo, è stata emblematica: inquadratura stretta sul suo viso, e occhi al cielo a mo’ di speranza e imprecazione. Impossibile sapere cosa abbia pensato con certezza, ma non difficile da ipotizzare. Sarà stato qualcosa come “sta andando di nuovo tutto storto”. Oppure: “Ecco qui, ci risiamo. Ho fallito di nuovo”. Poi, nella ripresa, buon per lui, le cose si sono raddrizzate. Prima l’assist per il vantaggio bavarese, successivamente il gol nel finale, a una manciata di minuti da quei supplementari che erano già pronti per essere disputati. Il gol (splendido. Che dribbling, che tocco), la liberazione, la gioia… la psicanalisi evitata.
La tristezza. Per un Borussia, invece, decisamente coriaceo, per una banda di ragazzoni che seppur priva del talentuoso Gotze – infortunato per fortuna, perché chissà con quale spirito avrebbe giocato, lui, che adesso è tesserato a Dortmund ma domani lo sarà a Monaco – ha saputo mettere in campo anima e cuore, passione e voglia, sospinta dalla grinta di Reus, dalla freddezza di Gundogan, dalla qualità di Lewandowski, dalla sagacia tattica e dall’intelligenza del suo allenatore, Jurgen Klopp. “Kloppo” per i suoi calciatori presenti e passati, molti dei quali esplosi grazie agli allenamenti, e ai consigli, di uno dei tecnici migliori del panorama calcistico mondiale. Klopp che, ai tempi di quando allenava il Maintz, costrinse tutta la squadra ad andare in ritiro in Svezia… in una “selva selvaggia e aspra e forte” come direbbe Dante (no, non quello del Bayern, che a proposito: è stato graziato da un comunque bravo Rizzoli) “che nel pensier rinova la paura“. Già, in una selva selvaggia: una sorta di accampamento nei pressi di un lago, al freddo, senza cibo, né corrente elettrica, in cui per sopravvivere – già, per sopravvivere! – i suoi atleti dovettero imparare a pescare, a nutrirsi di ciò che trovavano e che natura lor concedeva. Non è una storia inventata, sia chiaro: lo ha rivelato proprio Klopp, in una delle sue sempre divertenti conferenze stampa. Spiegando che lo fece per… fare gruppo. Per trarre fuori il massimo dai suoi ragazzi, per tenerli uniti, e insegnargli a superare ogni situazione, che sia una partita di calcio o una questione di vita o di morte. Gli anni son passati, quel Maintz (spacciato, sulla carta) raggiunse la salvezza in Bundesliga, Klopp fu eletto a beniamino, riuscendo, pian piano, a far carriera, superando ostacoli su ostacoli, ottenendo soddisfazioni, vincendo partite in campo e fuori. Fino alla notte di Wembley. In cui, volente o nolente, si è piegato alla… legge di chi è ancora il più forte: Heynckes. Giusto così, dopotutto. D’altronde, tempo ce n’è, caro Klopp, per compiere e far compiere al tuo Borussia anche l’ultimo passo della grandissima scalata. Quello che porta sul gradino più alto del podio. Che adesso è tutto rosso, ma domani… chissà.