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Solo e soltanto l’Europa. In palio in questi ultimi 90 minuti di calcio giocato, i restanti pass che portano al calcio del Vecchio Continente. Il fatto che sia, appunto, questo l’unico premio ancora da assegnare, lascia intendere che dopotutto aveva ragione chi notava già a inizio stagione un livellamento – verso il basso – della nostra Serie A.

Mi sono trovato molte volte contrario a tale considerazione, anche se poi, di settimana in settimana, ho dovuto gioco forza fare un passo indietro, alzare le mani e ammettere che sì, costoro avevano ragione: di competizione vera, in Italia, oramai veramente poca.

Non starò, però, qui a fare panegirici sul perché questo calcio si è livellato (si dovrebbe dire troppo, e non basterebbe un editoriale); quello che ho in mente di fare adesso è una sola considerazione, anche piuttosto semplice, e non così scontata come sembra. Ed è questa: il calcio, in Italia, oggigiorno, non interessa praticamente più.

Attenzione: è ovvio che non mi riferisca agli appassionati, alla gente “comune” che, come da tradizione, ne vive; la mia attenzione si rivolge invece a coloro che sarebbero chiamati a investirvi soldi e tempo, a quegli imprenditori che sempre meno si affacciano sul panorama calcistico, preferendo piuttosto percorrere altre vie, puntare ad altri sport, soprattutto raggiungere altri luoghi (extraeuropei).

La dimostrazione di quanto dico è semplice, e sotto gli occhi di tutti. Juventus: conduzione familiare, gli Agnelli i primi tifosi. Nuovo stadio, nuove ambizioni, voglia di far crescere la squadra e, ovviamente, sviluppare il marchio aziendale. Udinese: situazione molto simile: famiglia Pozzo al vertice, imminente nuovo stadio, filosofia calcistica esemplare, calcio di buon livello. Tutte le altre? In cerca, ancora, di una loro identità. Compreso il Milan berlusconiano, la Roma americana. Comprese Fiorentina e Napoli, bellissime realtà ma palesemente condizionate dalla personalità ferrea dei loro presidenti.

Juve e Udinese dunque: due squadre con aspirazioni ovviamente differenti, ma accomunate da quel fattore che, in estrema sintesi – e anche qui risulterò scontato ma non lo sono – è veramente determinante. Il-nuovo-stadio. Che più che essere una fonte certa di guadagno, è prima di tutto la dimostrazione della vera volontà di sviluppare il club. E’ il passo fondamentale verso la crescita di una società, in un calcio in cui le spese sono tante, e qualsiasi introito è prezioso. Godere di un impianto proprio fa la differenza: lo vediamo all’estero, basta guardare in Inghilterra, o in Germania, per assumerne consapevolezza. E che non si dica che la legge sugli stadi ancora non approvata metta i bastoni tra le ruote: con un po’ di organizzazione, e di buon senso reciproco (società e comuni), la cosa si può fare (con la concessione del terreno, per esempio). Inoltre, costruire nuovi impianti vorrebbe dire sì, sviluppare il nostro calcio; sì, dare una nuova immagine – più elegante, più frizzante – al nostro pallone; ma soprattutto, sì: svegliarsi. Tirarsi su le maniche e iniziare a impastare la farina. Perché è il momento, perché di investitori, oggi, ce ne sono pochi, le spese sono tante, troppe, e questo sport non fa più gola così com’è. I campioni vanno all’estero, il divertimento ne risente, le tv non pagano, i soldi non ci sono, le squadre non comprano, e altri campioni se ne vanno. Un ciclo, un moto perpetuo, un cane che si morde la coda. Passeranno gli anni, forse qualcosa cambierà. L’impressione, però, è che per ancora un bel po’ di tempo il nostro campionato sarà lungi dall’essere quello che – giusto un decennio fa – veniva considerato il più bello e difficile del mondo.