Il fine (non) giustifica i mezzi
Simulare, accentuare e cadere in atteggiamenti melodrammatici. Chiamatelo come volete, ma tutti questi comportamenti hanno un solo denominatore comune: la disonestà. Credo fermamente nello sport come veicolo per insegnare l’educazione ai ragazzi, soprattutto quando si parla di calcio: è indubbiamente il primo sport della nostra penisola, e a ogni angolo della strada è presente un ragazzino il cui sogno nel cassetto è quello di indossare la maglia della propria squadra del cuore, nel futuro più remoto (ma neanche troppo).
Non è nella mia indole trovare un capro espiatorio contro cui dare addosso solo per ottenere consensi, ma la bravata di Daniele De Rossi – martedì sera contro il Chievo – è perfettamente aderente con quello di cui ho parlato sino adesso. Lo scenario è quello classico: squadra in difficoltà e con un obiettivo preciso da raggiungere, la vittoria. I veneti però si chiudono bene e non è facile trovare i varchi giusti per risolvere la partita; qui entra in gioco il comportamento a dir poco diseducativo, ossia approfittare di un leggero contatto per poi buttarsi in terra urlando a più non posso, nella speranza di ingannare l’arbitro e ottenere, magari, un’espulsione. Una manna dal cielo, considerato il momento della squadra giallorossa, che continua a spingere e a tirare in porta trovando però, come risposta, soltanto i guanti di Puggioni.
Cosa dovrebbero imparare i bambini e gli adolescenti in generale da questo comportamento, per di più eseguito da una bandiera assoluta della Nazionale Italiana? Colui che, a Roma, è da sempre considerato una specie di monumento intoccabile (anche se, ultimamente, non è proprio tutto rosa e fiori), il futuro capitano che trascinerà – prima o poi – la squadra della sua città allo scudetto. È altrettanto normale, quindi, che sui campi giovanili avvengano le stesse identiche situazioni. “Se possono farlo loro, famosi e strapagati, perché io no?“: di sicuro questo ragionamento, nella testa di un bambino, è a dir poco giustificabile. Viviamo in un mondo in cui la TV – purtroppo – è la prima fonte di educazione per i nostri figli, sicuramente più della scuola in alcuni ambienti di periferia.
Il gesto di De Rossi in sè non è grave, visto che alla fine è dimostrato che il contatto, seppur minimo, in effetti c’è stato. La reazione, però, non è giustificabile, a meno che Dainelli non abbia cortesemente chiesto i piedi in prestito direttamente a Tony Stark, il protagonista di IronMan. E questo lo sa chiunque abbia giocato a calcio almeno una volta nella propria vita, perché di pestoni simili se ne ricevono due o tre ogni partita, soprattutto sui calci da fermo; di certo, però, la corretta conseguenza non è fare una capriola all’indietro nella speranza di impressionare l’arbitro.
Queste cose accadono ovunque, anche nel meraviglioso mondo della Premier League: pochi giorni fa, infatti, David Luiz è letteralmente svenuto dopo un contatto con Rafael, quest’ultimo poi punito con il cartellino rosso. Non solo il danno, ma anche la beffa: perché il difensore brasiliano si è anche sentito in dovere di fare una fragorosa risata, deridendo i tifosi avversari. Come a dire: “Avete visto? Sono più furbo di lui, dell’arbitro e del guardalinee. Anzi, di tutti quanti“.
Impossibile dimenticare anche il gesto di Sergio Busquets, che nella semifinale di Champions League contro l’Inter provocò l’espulsione di Thiago Motta, gettandosi a terra dopo una “carezza” ricevuta dall’italo-brasiliano. In questo caso, però mentre cadeva a terra tarantolato, il centrocampista blaugrana cercò di accertarsi in prima persona se l’arbitro fosse effettivamente caduto nel tranello.
Punire questi gesti con una squalifica può servire? Non credo, perché una o due giornate spesso valgono meno di un rigore inesistente decisivo per la vittoria finale, soprattutto con le rose allargate a trenta giocatori. Non si possono più tollerare comportamenti simili, servono punizioni esemplari, sia perché atti simili rischiano di falsare quelli che sono i veri valori tecnici in campo, sia perché alterano anche i valori morali con cui crescono i nostri ragazzi. E, se permettete, quest’ultimo punto mi sta molto più a cuore.
Così come una guerra non può portare alla pace, una simulazione non può essere da esempio per quelli che saranno i calciatori (ma anche solo semplici cittadini) del futuro; il fine non giustifica mai i mezzi. Mai.