L’urlo della fede s’infrange a Superga
Quattro maggio 1949, ore 17,03, Superga.
Un fragoroso schianto ha appena scosso fin nel midollo il terrapieno dove sorge la Basilica che domina il panorama torinese, appena un po’ più giù. Si vede benissimo la mole, da qui. Quel maledetto fragore annuncia, precursore di campane a lutto, il giorno più nero nella storia del calcio italiano e, forse, mondiale. Il Grande Torino, la squadra di calcio più famosa e ammirata del Belpaese, s’è spento per sempre.
Valerio Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Émile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini, Guglielmo Gabetto, Ruggero Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik, Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo Menti, Piero Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti e Julius Schubert sono morti. Non ci sono più.
Trentuno decessi, trentuno vite recise violentemente su quel terrapieno. Non solo i calciatori, ci hanno lasciati anche allenatori e dirigenti di quell’irripetibile Toro: Arnaldo Agnisetta, Ippolito Civalleri, Andrea Bonaiuti, Egri Erbstein, Leslie Lievesley e Osvaldo Cortina. Senza dimenticare l’equipaggio ma nemmeno le leggiadre e leggendarie penne del giornalismo che erano a bordo anch’esse: Renato Tosatti, Renato Casalbore e Luigi Cavallero.
Come ogni tragedia, la caccia al colpevole è inutile, dannosa e sterile. E’ successo e basta, il Fato ha deciso così, il Fato li ha sconfitti. Unico a riuscirci.
Sanguina una città, sanguina un Paese, sanguina un popolo. La sfumatura ematica però non è rossa ma granata, perché questo è il colore che scorre nelle vene di quella gente, orgogliosa e distrutta nell’anima e nella mente. Quei ragazzi non erano solo un gruppo di calciatori inarrestabili, quei ragazzi erano prima di tutto il simbolo di una Torino (ma anche di un’Italia) che rialzava la testa e ricominciava timidamente a sognare dopo gli orrori della guerra. Il pubblico torinista non amava i propri beniamini unicamente per ciò che facevano in campo, ma anche e soprattutto per quel che significavano fuori, per quello che erano fuori: simboli in cui identificarsi, Eroi della Ricostruzione. In senso pieno et assoluto. Niente moralismi, la ricostruzione passa anche dallo sport. E Ferruccio Novo, IL presidente, lo sapeva.
Il campionato 1948/1949 viene assegnato d’ufficio ai granata, nonostante mancassero ancora quattro giornate da giocare. Troppa la superiorità sul rettangolo di gioco: tale addirittura da pensare “Se non fosse… Avrebbero certamente vinto“. Tutti d’accordo, nulla da eccepire. Come avrebbero potuto?
Il simbolo, o meglio, l’uomo simbolo, del Grande Torino aveva un nome e un cognome precisi: Valentino Mazzola. I nostri nonni hanno giurato e spergiurato in ogni modo che egli sia il più grande calciatore italiano di tutti i tempi. Noi ci abbiamo creduto, se non altro perché mentre lui ce lo raccontava tenendoci per mano, gli si illuminavano gli occhi per poi inumidirsi subito dopo. Quella era la verità quando avevamo sette anni, quella è la verità adesso che siamo cresciuti e l’abbiamo visto coi nostri occhi.
Superga segna una ferita indelebile persino nel cuore di chi non l’ha vista, di chi non l’ha vissuta. Perché lì s’è spento il futuro di alcuni, il presente di altri e il passato di tutti. Anche il nostro.
Forse è per questo che, in fondo al cuore, vorremmo che non fosse mai successo noi per primi. Forse è per questo che non vogliamo pensarci. Forse è per questo che, come diceva Montanelli, crediamo che il Grande Torino non è scomparso, è solo “andato in trasferta“, cullando l’illusione (o la certezza?) che prima o poi potremo raggiungerlo e, finalmente o di nuovo, ammirarlo.