Home » Il calcio, la vita a colori

In una interessante intervista a Emanuela Audisio apparsa pochi giorni fa su La Repubblica (potete leggerla qui), Lilian Thuram ha parlato di sé, del razzismo e di tutto quello che gli sta a cuore nella sua vita oltre il calcio. A partire dalla frase-slogan da cui viene fuori il titolo: «Neri non si nasce, lo si diventa. Quando qualcuno ti sbatte in faccia uno stereotipo».

Un concetto importante, nel quale mi risuonano perlomeno due casi già noti: Simone de Beauvoir che scrive «On ne naît pas femme: on le devient», Donna non si nasce: si diventa (Il secondo sesso, 1949), e Barack Obama intervistato da David Letterman nel 2009, quando disse, scherzando: «I was actually black before the election», In realtà ero nero anche prima dell’elezione. Indicativa e notevole la risposta dello stesso Letterman: «How long have you been a black man?».

Parte del problema è proprio qui: nel dover diventare qualcosa, nell’essere visti come qualcosa. Vale nel calcio, vale nella vita di tutti i giorni. Vale per chiunque: singoli e gruppi. Penso anzitutto, in questa fase politica così difficile per il Paese, alle curve più “schierate” e agli insulti che possono volare: parole che nessuno (mi auguro) riferirebbe mai a nessun altro, in condizioni normali; e non parlo solo del colore della pelle, ma proprio di tutto ciò che fa diventare un nemico colui che non milita nella nostra squadra.

Prendiamo proprio questo esempio: è una forzatura, ma da buon difensore, Lilian Thuram cerca di mantenere l’equilibrio della partita, impedendo che agli avversari di violare la propria porta. Un attaccante come Balotelli, per esempio, si compie tutto nello spezzare quello stesso equilibrio. È il normale gioco delle parti: in campo si gioca così, si riveste un ruolo per occupare gli spazi e garantire gli interessi della propria squadra. Ma con rispetto. Balotelli sbaglia non perché è nero: perché ha un caratteraccio. Sarebbe la stessa cosa se venisse da Marte.

Ecco, appunto, il rispetto: quello che non sempre si manifesta sugli spalti, tanto per cominciare. A volte si è arrivati all’autolesionismo, come nel caso Omolade (Treviso, 2001). Sono passati 12 anni, eppure quest’anno non ci siamo fatti mancare niente di simile (citofonare Boateng per i dettagli).

Personalmente, se non pensassi che si tratta di una soluzione razzista-a-rovescio, sarei quasi per un metodo omeopatico: una dose a ciascuno, voglio vedere chi ha il coraggio di fischiare o insultare un avversario quando un giocatore della propria squadra ha lo stesso colore della pelle. Quale distinguo si potrebbe inventare? Chiaro, è soltanto una provocazione; ma fa pensare. E mi fa credere una volta di più che ha ragione chi ha detto che il razzismo finirà quando si potrà dire che un nero è uno stronzo. Esattamente come un bianco, un giallo o un che.

«Bisogna educare le nuove generazioni», dice Thuram. E ha perfettamente ragione. Ma dovremmo cominciare a educare le generazioni già adulte, a mio avviso. Ed è un discorso che vale non solo per il razzismo, ma per tutto: lungimiranza politica e sociale, rispetto degli altri, e così via. (Esempio di lungimiranza: vedere che la Germania ci ha sorpassato nel ranking UEFA, vedere che potrebbe surclassarci con due finaliste di Champions, e imparare la lezione.) E anche per i comportamenti delle folle: persone che sono normali nella vita quotidiana, poi, allo stadio si trasformano.

E invece dobbiamo trasformare il nostro modo di pensare, cominciando ad agire in modo coerente e rispettoso, e soprattutto non tollerando più che gli altri non lo facciano. Se manca uno solo di questi due pilastri, la struttura non può evolvere. Vale per il razzismo, per il ranking UEFA, e anche per il giornalismo. Se solo lo volessimo.