Il significato di Boston
Dopo alcuni giorni di silenzio, credo che sia l’ora di parlarne. Piano piano, allo shock si va già sostituendo un dolore più contenuto e cerebrale: come quando si passa dal trauma fisico di un incidente a quello psicologico del ricordo del dolore. Oggi sconfiniamo quindi un po’ oltre lo sport. Non è, e non può essere, interesse nostro stabilire chi sia stato, e il perché del gesto. Possiamo però pensare per qualche minuto al perché per un attentato del genere sia stato scelto proprio un evento sportivo (una maratona) in un posto come Boston.
Perché entrambe le cose possono avere una propria importanza. Parto da quella più dubbia: il luogo. Boston è nel Massachusetts, probabilmente lo stato più liberal degli USA. In altre parole: lo stato più aperto, più progressista, più rappresentativo di quel melting pot che vuole essere la nuova America. Colpire lì per educare tutti, e per suscitare un rigurgito di conservazione. (Non sarà un caso se i repubblicani maldigerivano la candidatura di Mitt Romney alla Casa Bianca, indicandolo come un ex governatore di uno stato ultraliberal.)
Questo, di per sé, può essere indicativo o forse no. Ma quello che è sicuro è che indicativa è la scelta dell’evento: come nel 2001 il secondo aereo aspettò 18 minuti prima di schiantarsi sulla seconda torre (in favore di telecamere), così adesso si è cercata l’esposizione mediatica. Possiamo parlare di audience riflessa: quella stessa che spinge uno come Cecchi Paone a rilasciare determinate dichiarazioni durante gli Europei. Il discorso è: se le telecamere sono tutte puntate su un evento, l’importante è riuscire a ottenerne esposizione per i propri scopi. Chiaramente il caso di Cecchi Paone è meno grave almeno nelle conseguenze fisiche.
Quindi: lo sport come veicolo per altri messaggi. Non è un buon segno; come non è un buon segno ricordare come lo sport serva a montare e smontare miti vari, a piacimento; e a centomila altre cose (portare fondi all’estero, farne una bandiera politica, e così via). Lo sport viene colpito, lo sport si ferma (la partita tra Boston Celtics e Indiana Pacers è stata annullata, ripeto: non rinviata, annullata).
Un po’ mi viene da pensare al destino che porta con sé un evento costruito in questo modo (con bombe costruite per mutilare, più che per uccidere). Anzitutto, il senso di una maratona che finisce, una corsa che si arresta. Come se, in questa fase, lo sport e i suoi valori siano spariti da ogni contesto, con il risultato che non guardiamo più avanti, ma sempre indietro; che l’unica camminata che ci concediamo è quella del gambero.
E poi, ancora peggiore, proprio la mutilazione: il rapporto con il corpo e la fisicità. Ho già scritto in passato che quella che conta è l’attitudine impiegata, non l’essere o meno normodotati. Ma qui la situazione è a rovescio: un atleta paralimpico cura il suo corpo e ne fa un tempio; l’attentatore (chiunque sia o siano) ha preso un evento sportivo per fare scempio di corpi ai suoi occhi indistinti, indifferenziati. Ha cercato di colpire più corpi possibile, e di frustrare in diretta mondiale più menti possibili.
La vita di uno Zanardi è cambiata per sempre il 15 settembre 2001, soli quattro giorni dopo che il secondo aereo si era schiantato sulla seconda torre in diretta mondiale. Ma lui, Zanardi, in quel momento non è cambiato. Stavolta tragedia e sport coincidono; e il compito dello sport, in frangenti come questi, è di ricordarci a freddo che la nostra vita può rimanere la stessa di sempre, senza condizionamenti.
Poscritto. Devo il titolo di questo articolo a Gore Vidal, che sull’attentato di Oklahoma City (19 aprile 1995) scrisse un lungo articolo intitolato Il significato di Timothy McVeigh per spiegarne le motivazioni (per quanto sbagliate fossero).