#iononcicredo(più)
Rigiriamo il coltello nella piaga. Dopotutto, sono giorni poco sereni, a tutti i livelli. Il problema è la voglia. Non è un problema della Juventus, ma del movimento italiano. Nel senso: la Juventus ha perso con il Bayern, e in modo netto. E in questo momento, parliamoci chiaro, i bianconeri sono il miglior prodotto, il più efficace, sui nostri campi. Non basta dire #iocicredo.
Per qualsiasi cosa, bisogna anzitutto crederci nei fatti, nelle azioni; e non sempre è facile. Qualche passo in avanti lo abbiamo fatto: penso al Milan che si ritrova in casa un De Sciglio e ne fa un pilastro; o al lancio di El Shaarawy, rimanendo in orbita rossonera. La stessa Juventus, in realtà, ha già attraversato un percorso del genere: erano gli anni di Calciopoli, e nella ripartenza dalla Serie B si decise di scommettere su alcuni prodotti locali; cioè (anche) su giocatori come Marchisio, Molinaro e altri. Qualcuno è arrivato (anzi: ai tempi c’era chi era scettico), qualcun altro no; e il progetto prosegue. Perché è nel gioco delle parti che non sempre si abbia successo.
E questo, in Italia, fatichiamo a capirlo. Penso a come l’Inter non sia riuscita a normalizzare il carattere di Balotelli; o a come, alla fine, abbia bruciato quel Santon che sembrava un predestinato (veniva paragonato nientepopodimenoché a Giacinto Facchetti, giusto per tenere bassa l’attenzione).
Lo ha scritto ieri Alessandro Lelli su queste stesse pagine: nessuna italiana nella fase conclusiva della Champions League. Di per sé, non è questo il problema: i bianconeri hanno fatto buona programmazione, partendo dagli investimenti sullo stadio (caso unico a queste latitudini), passando per una rosa costruita con investimenti oculati (cioè: spendere senza spandere, con raziocinio). Non è un piano che porti direttamente al successo; ma di certo aiuta. Specie quando tutte le altre squadre (esclusa solo la Lazio: senza stadio di proprietà, ma con una rosa che viene costruita e puntellata in maniera efficace) vivono di sbalzi d’umore, pensando più con la pancia che con il cervello (mentre a soffrirne è il portafogli).
Siamo sempre lì: quello che conta è il progetto. E in questo, dobbiamo dirlo, l’Italia è anni luce indietro. Che la Juventus sia inferiore al Bayern Monaco, di per sé, è qualcosa che può succedere: è successo in passato, succederà ancora in futuro. Ma, come sempre, ci si augura che ci sia una specie di parità: altre volte saranno i tedeschi a essere sorpassati, è già successo e succederà ancora. Ma è un fatto che, negli ultimi dieci anni, la Bundesliga ci ha surclassato. A livello di squadre nazionali, vivendo di impeti improvvisi, abbiamo sempre portato noi a casa il risultato. Ma se pensiamo ai club, e a quel quarto posto in Champions, non possiamo che piangere noi stessi.
Perché il problema non è certo avere il Cristiano Ronaldo della situazione: il calciatore davvero dotato (quello che, ben guidato, può diventare un campione) arriva comunque, grazie al talento. Prendiamo Balotelli: se cominciasse ad allenarsi davvero, se allenasse il suo istinto (non è una contraddizione), se rimanesse le ore a perfezionare un tiro che è forte di suo in altre parole: se si allenasse come Cristiano Ronaldo, appunto, chissà dove arrivererebbe. Il problema non è la mancanza dei campioni, quanto di tutta una generazione di mezzo.
Di Buffon ne nasce uno ogni tanto (… e non sempre è nella serata giusta: a quest’età, ormai, glielo possiamo anche concedere). Ma mancano i Barone, i Perrotta, gli Iaquinta. Mancano gli onesti mestieranti che sono il collante di ogni squadra. Barone, nel 2006, ha giocato un tempo: in due scampoli di partita (contro la Repubblica Ceka e poi nei quarti contro l’Ucraina), ha dato il suo contributo. Ha mai protestato per lo scarso impiego? No: davanti aveva altri onesti mestieranti, che però avevano più fiato di lui (Gattuso, per dire). Sicuramente ha “studiato” tutta la vita per sognare di vincere un Mondiale; può dire di esserci riuscito perché ha accettato i propri limiti. Senza invidie.
Reus non è un campione. Non lo è Bender. E neanche Gündoğan. Ma insieme hanno formato un Borussia Dortmund giovane e vincente. In Italia facciamo le cose in un altro modo: anzitutto, ognuno pensa per sé. Ognuno fa i propri calcoli. Se necessario, ci facciamo le scarpe a vicenda. E se sbagliamo, cerchiamo di salvare capra e cavoli (e noi stessi), invece di prendere le decisioni più opportune. E, per salvare noi singoli, continuiamo a lasciare che la squadra, il gruppo rischi il peggio. O che passino messaggi sbagliati. E, in ogni caso, non c’è mai la pazienza di guardare in profondità.
È come la crisi dell’Europa: se ognuno pensa per sé, vince chi è troppo più forte, o chi rompe di più gli schemi. Quando in realtà abbiamo solo bisogno di credere, compatti, in una strada. Di procedere tutti insieme negli interessi del movimento. Una cosa che dovrebbe dare agli individui anche la forza di ammettere i propri errori, e di fare marce indietro che non siano solo di facciata. Per questo la Germania ci è davanti: perché, pur non avendo l’estro latino, riesce a inseguire e perseguire i propri obbiettivi come se fosse un uomo solo. È un fatto politico: si aderisce a un modello, cioè se ne condividono le basi. E le basi del movimento tedesco sono un reclutamento efficace, e tanto impegno. E il coraggio di accettare i propri errori, e di non ripeterli più. Chi vuole intendere, intenda.