Imparare da Mihajlović
Allora in Italia non siamo gli unici ad avere problemi nel segreto dell’urna: stranamente alle ultime consultazioni politiche nessuno ha poi parlato di brogli (era un po’ che non succedeva), così Goran Pandev ha pensato di rimediare: il suo voto per il Pallone d’Oro degli allenatori, sostiene, nel 2012 era andato a Mourinho (il ragazzo vota in quanto capitano della nazionale della Macedonia), che sfortunatamente non figura in alcuna delle tre scelte (Del Bosque primo, poi Mancini e Klopp). Lo Special One aveva già tuonato. Potrebbe farlo a ragione oppure in proprio (oscurando il titolo di Del Bosque), fa poca differenza: si vede che da noi ha imparato bene.
Perché noi siamo gli stessi capaci di fare dichiarazioni al vento del genere di «Balotelli alla fine è un buon ragazzo». Come se questo cambiasse qualcosa (per una squadra che, peraltro, fino a pochi mesi fa contava su un certo Cassano), e come se fosse rilevante, e come se fosse vero. Perché dobbiamo parlarci chiaro: quando si parli di sport, non ha importanza se uno sia un bravo ragazzo o meno; hanno importanza la professionalità e il comportamento in campo, anzitutto. Tutto ciò che esula dal campo, beh, sicuramente è di cattivo esempio; ma è di cattivo esempio non per lo sport, bensì per la società. Ma nel nostro paese è difficile fare certe distinzioni.
Fin qui, lo ammetto, ho sparlato del nostro campionato e dei nostri protagonisti. Non ci vuole neanche molto sforzo: viene naturale, a leggere certe dichiarazioni, a sapere come funzionano certe cose, e a vivere in questo paese qui. Ma a volte bisogna chiedersi anche se i disastri non siano internazionali: e in questi giorni, tra incastri di calendario e sortite dei singoli, se ne vedono delle belle.
Quindi prendiamo esempio dall’estero per chiudere e riflettere ancora una volta di più. Prima notizia: a differenza di quanto detto su Balotelli, c’è anche chi si comporta male dentro il campo, seppure con motivazioni extracalcistiche; un saluto romano non si nega di certo a un giovane calciatore. A riprova del fatto che lo sport ormai non si ferma più allo sport medesimo. Notevole la presa di posizione di chi di dovere: escluso a vita dalle nazionali (… ma non condoneranno mai?), Katidis è anche stato invitato a trovarsi un’altra squadra; e forse qui la punizione è persino troppo esemplare — nel senso: la punizione deriva anche da una differente posizione politica della squadra. In altre parole: è una punizione extracalcistica. Non è facile addentrarsi in certi argomenti, lo so; ma a volte penso che bisognerebbe usare lo stesso metro per tutti gli errori di tutti i colori, ecco.
Seconda notizia: siamo venuti a sapere che Karim Benzema non canta l’inno. Putiferio! Sinceramente: non capisco il problema. Nel senso che cantare o meno l’inno, a mio avviso, dovrebbe essere soltanto una questione individuale: c’è chi lo urla, come faceva Zamorano con l’inno cileno, e ci sono i nostri calciatori che ancora non hanno imparato cosa sia una coorte (e, se non lo imparano loro, non lo impara neanche il resto del paese, che l’inno lo sente quasi soltanto prima delle partite). Le dichiarazioni di Benzema sono state sicuramente dure, ma trovo che bisognerebbe lasciargli il diritto di tacere. Certe cose vengono vissute individualmente: trent’anni fa l’inno non si cantava, e nessuno si lamentava. Pretendere un comportamento in forza del fatto che il ragazzo sia strapagato, beh, significa fraintendere e pensare che pagare significhi necessariamente comprare. (Tralasciando il fatto che a pagare è il Real Madrid, e ad arrabbiarsi un partito politico nazionalista francese. Un po’ comodo.)
Terza e ultima segnalazione: in serata, a Zagabria si giocherà Croazia-Serbia. Pensiamoci bene: un pezzo della storia europea recente. E pensiamoci bene di nuovo: perché con i serbi, di recente, in Italia abbiamo avuto un brutto rapporto (Ivan Bogdanov, come stai?). Siniša Mihajlović era in campo l’ultima volta che le due nazionali si sono affrontate, e ora siede sulla panchina serba. (Panchina dove non presenzierà Adem Ljajić: reo anche lui di non aver cantato l’inno, malgrado un regolamento interno che lo imponga. Occhei, rinuncio alla mia idea dell’intimità di certe cose. Tanto è inutile.) Noto anche per la sua amicizia con la “Tigre” Arkan, Mihajlović mostra però di avere capito più di altri: «È arrivato il momento di dimenticare il passato, tendere la mano e guardare avanti», «abbiamo pianto e perso, tutti. Ora dopo i corpi è arrivato il momento di seppellire anche odii e rancori», «questa partita non è la continuazione di una guerra». Bisognerebbe ricordarlo anche a tutti quelli che, in cronaca, usano metafore belliche. C’è anche dell’altro oltre al calcio, sotto il sole.