“Io non parlo mai di arbitri”

Domenica, tardo pomeriggio. La situazione è sempre la stessa, semplice semplice: una squadra ha subito le conseguenze di un errore arbitrale, magari macroscopico. L’allenatore in questione, lo chiameremo Tizio, si presenta ai microfoni delle innumerevoli tivu specializzate con la faccia delle brutte occasioni. Lo sguardo cupo, l’espressione contrariata, le emozioni negative.

Io non parlo mai di arbitri, ma…” è l’esordio di Tizio, magari abituato a storcere il naso e scandalizzarsi quando delle decisioni dei direttori di gara parlano Caio e Sempronio, gli allenatori delle squadre rivali. Quel “ma“, congiunzione avversativa come insegnano (più o meno) in tutti gli ordini di scuola, partorisce un vero atto di eloquenza e magniloquenza, il j’accuse con cui Tizio si libera di molti rancori.

Togliendosi tutti i sassolini dalla scarpa, ma proprio tutti: “io non lo volevo dire ma già la settimana scorsa c’era un rigore per noi, è che sono un signore. E poi stavolta, siamo proprio penalizzati e gli arbitri ce l’hanno con noi”, uno spartito che in parte mortifica e in parte fa riflettere.

E la musica continua, perché di fatto è vero che con una direzione di gara scevra da errori le cose sarebbero cambiate. Tizio è un po’ ipocrita, ma ha anche ragione. Si ripete settimana dopo settimana questa scenetta, perché tutti a parole sono degli educati signori che di arbitri non parlano, ma finiscono per parlarne più degli altri.

Nuova scena, più o meno ogni Domenica, football americano. Stati Uniti, dunque: terra di democrazia liberale, di associazioni, di consigli e decisioni per alzata di mano. Culla degli sport di massa, naturalmente: un arbitro interrompe il gioco e, in maniera trasparente e col microfono acceso, chiede a un collega lontano di rivedere l’azione appena svolta. I giocatori sono in realtà nervosi, perché dalla conquista di quel territorio dipende molta della settimana che avranno, ma sanno che le immagini parleranno e lo faranno con calma, non senza margine di errore ma quasi. Pochi attimi e l’arbitro spiega, a voce alta a 60mila persone, che ha cambiato idea perché le immagini spiegavano che la sua prima impressione era sbagliata.

Si snatura il gioco, gridano molti luddisti dalle nostre parti. Servono le tecnologie, aggiungono. Certo, perché in effetti le tivu che tanto si riempiono la pancia col football (nostrano) in ogni sua angolazione e con tutti i crismi non realizzano già quelle immagini. Si parla tanto della (dubbia) utilità dei giudici di porta, ma non s’è ancora pensato di dotare uno di loro di uno schermo televisivo, spostarlo in un’altra zona dello stadio, per aiutare l’arbitro a decidere.

Io sospetto che, con 30-45 secondi di tempo – quelli che fisiologicamente si perdono dietro a proteste, accerchiamenti intorno a chi ha già deciso e per regolamento non può cambiare idea anche se il maxischermo spiegherebbe altro, dietro ai falli cattivi fatti per reazione dalla squadra penalizzata – uno avrebbe capito che Nani fa quel gesto lì per agganciare il pallone, non si avvede dell’arrivo di Arbeloa, non lo abbatte volontariamente. Non da rosso, almeno: pace fatta, sfida più succulenta e viva degli ottavi salvaguardata, molte polemiche evitate.

Come sarebbe accaduto in un Leicester Tigers-Stade Français di rugby, o nella partita di football americano su menzionata. O anche nel rugby a 13, così come nella pallacanestro (con certi limiti, ma in fasi importanti: ricordate il tiro di Douglas nella finale scudetto?). Nel calcio no, chiaro: andiamo dentro agli spogliatoi a vedere la faccia di Handanovič mentre allaccia gli scarpini, ma la tecnologia diventa nemica quando c’è da rendere Tizio meno ipocrita, arrabbiato, sconvolto. Pure Caio e Sempronio ci guadagnerebbero, perché magari la settimana dopo toccherà a loro…

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Matteo Portoghese