Home » Un altro calcio – Le nuove leve del tifo: addio provincia

Sesta puntata di “Un altro calcio”

Fiorentina, Sampdoria, Napoli, Torino, Genoa, Lazio e Roma. Nel mio paese natale, Cariati, al confine tra la provincia cosentina e quella crotonese, tutte le sei squadre che ho citato sono rappresentate da almeno un tifoso. Siamo 8mila anime, un decimo di San Siro, eppure vi assicuro che fino a qualche tempo fa il fascino di una bella maglia, di una curva colorata e calda o di un solo campione che accendeva la fantasia, facevano ancora breccia nei cuori degli appassionati di calcio. Addirittura, spostandosi verso il profondo Nord della Calabria (il chè è un grosso ossimoro), si trova l’appassionato del Bologna, del Cagliari o dell’Udinese. Età media dei coraggiosi 50 anni: il più giovane, al massimo, viaggia sulla trentina. Perché?

Dichiarando la simpatia che prova nei confronti della Roma ai suoi coetanei, un mio amico viene deriso con forza: “Non vinci mai, chi te la fa fare?”; oppure: “Ma dici sul serio? Non ci credo”. E’ cambiato il mondo e, di conseguenza, il calcio e il modo approcciarsi ad esso. La competitività al potere, l’apparenza prima dei sentimenti e il motto “Meglio antipatico che perdente” che ormai fa da slogan a qualsiasi club in testa alla classifica del proprio campionato. La questione ha radice lontane, e infatti ci tengo a precisare di non volermi erigere al ruolo di nuovo scopritore dell’America, ma ciò non ci impedisce di stilare un quadro chiaro sul tifoso medio di oggi. Chi vince fa sempre proseliti: Edoardo Agnelli, nonno dell’attuale presidente della Juventus, fu il più lesto a comprenderlo. Divenne numero uno dei bianconeri nel 23 e, fino al giorno della sua prematura morte avvenuta nel 35, mise in bacheca 6 scudetti. Aveva capito (ed io ho a mia volta capito la sua storia grazie al libro di Mario Sconcerti) che quella sfera che rotola sull’erba è il mezzo più semplice per avvicinare i grandi padroni alla gente e guadagnare prestigio e affetto. La Juventus, non a caso, vanta 14 milioni di “supporters” in Italia, però è dura stabilire quanti la tifino per convinzione e quanti, al contrario, per convenienza. Eccola la differenza con il passato.

Se si fa un sondaggio sui nati dal 90 ad oggi, risulta che in pochissimi fuoriescono dal circuito Juve-Milan-Inter. Ciò accade anche a Bologna, a Palermo, cioè due delle città più popolose della penisola nelle quali magari si va allo stadio ma con la radiolina ci si collega al Meazza. La squadra della propria terra riveste ormai una funzione simbolica: è l’amore di riserva, quello inevitabile, quello regalatoci dalla sorte ma inadatto a soddisfare la nostra sete di gloria. Su Facebook non si può mica insultare il rivale per un cross di Morleo, non scherziamo! Ricordo che lo scorso anno andai in tribuna allo Scida di Crotone, per una sfida tra i rossoblu e il Modena, e dovetti cambiare posto dopo 2 minuti perché i tizi affianco a me litigavano per un fuorigioco non segnalato all’Inter. Quando Calil ha fatto gol, hanno mosso il braccio e poi hanno proseguito nella loro diatriba. Tralasciando gli ultras delle curve, alcuni si chiedono: “E’ possibile che prima o poi nella provincia scompaia il tifo?”. Non è possibile: prima o poi l’originalità, il fascino agreste e casereccio del pallone e la bontà di spirito torneranno a trionfare! Per ora, se proprio le nostre big non ci piacciono, c’è sempre il Barcellona…

Le puntate precedenti:

7 febbraio 2013 – La sociologia nel pallone: parola a Francesco Mattioli

14 febbraio 2013 – Francisco Ramon Lojacono: un ricordo da salvare

21 febbraio 2013 – Luciano Re Cecconi: la diversità fatta persona

28 febbraio 2013 – Jason Mayelé: il ritardatario che volava sulla fascia

7 marzo 2013 – Da Zampagna a Balli: i viziosi allegri