Quinta puntata di “Un altro calcio”
“Io non mi sento un calciatore”. Settembre del 2004, la neopromossa Messina batte la Roma di Rudi Voeller, per qualche giornata improvvisato allenatore, e conquista le prime pagine dei giornali. Protagonista assoluto Riccardo Zampagna, attaccante 30enne alla prima stagione in Serie A: un suo pallonetto, infatti, firma il definitivo 4-3. Si cerca di passare sotto la lente di ingrandimento il personaggio, aspettandosi le solite dichiarazioni del tipo “Prima viene la squadra, poi i miei gol. Ringrazio il mister per la fiducia ecc…”. Invece no: l’ex carpentiere di Terni non vuole nascondere se stesso, preferisce che si parli dei suoi dolci vizi. Per tanti anni non ha navigato nell’oro, perciò da uomo ricco e famoso apprezza meglio di molti suoi colleghi le piccole cose della quotidianità. Zampagna diventa professionista nel 96, «Troppo tardi per farmi piacere il calcio. Io mi ci trovo male, infatti. Calciatori si nasce e io non ci sono nato. Il calciatore cresce passando attraverso i settori giovanili, con gente che gli spiega cosa fare. A me nessuno ha mai spiegato niente. Ho sempre fatto a modo mio e mi piacerebbe allenarmi come voglio. Non sono mai stato inquadrato. Quando fai un lavoro, l’amico/collega ti deve aiutare, ti deve dire la verità. Nel pallone, invece, è tutto finto”. Zampagna ama le sigarette, il vino, la buona cucina e vuole solo essere felice. Sì, è proprio un pesce fuor d’acqua. Però apprezza se stesso e non si pente di nulla.
George Best, Diego Armando Maradona, Paul Gascoigne ed altri illustri campioni, al contrario, cercavano rifugio nella droga e nell’alcool, ossia in quei vizi che invece di allietarti la vita te la rendono terribilmente difficile. Sono pochi i fuoriclasse che escono dal recinto dell’estremo: o si comportano e parlano da professionisti ovattati, oppure finiscono per diventare schiavi di se stessi. Dov’è la differenza con lo Zampagna di turno? La differenza sta nella perdita di contatto con l’uomo. Il successo ti travolge, il successo è croce e delizia, ti culla e poi ti abbandona. E allora addio normalità. Per avere un futuro sereno fuori dal calcio, la prima regola è quella di non farsi coinvolgere troppo da esso; siamo in un mondo altamente virtuale, dove ci fanno credere che reprimere i propri impulsi sia una scelta saggia e non un peccato. Se ci piacciono le tagliatelle non dobbiamo convincerci di essere matti, altrimenti superati i 35 anni continueremo a mangiare solo bresaola e l’esistenza ci sembrerà avara senza quella sfera. Il mix ideale è Michel Platini, cervello alla Zampagna e piedi da Dio: “Fumo? L’importante è che non lo faccia Bonini. Lui deve correre anche per me”.
Il mix ideale è anche Dario Hubner, Marlboro su Marlboro e una passione smisurata per la grappa. Magari si faceva un goccino anche prima della partita, però poi entrava in campo e la buttava dentro. Aveva la predisposizione ad ingrassare e negli allenamenti, durante le esercitazioni tecniche, era quello che faceva meno palleggi dell’intero gruppo. Risultato? Gol a grappoli ed una classifica dei capocannonieri vinta assieme a David Trezeguet. Non è bella la vita? C’è poi chi prende tutto con il sorriso, chi esplode tardi, viene subito dimenticato e miracolosamente riguadagna la luce dei riflettori. L’ingrediente è uno solo: il caffè. Daniele Balli ne beveva a bizzeffe, pure 6 o 7 nelle ore che precedevano una sfida importante. “E’ la mia droga”, diceva; “Ma lo sai che fa male?” “A me fa bene”. E via a difendere i pali, nella massima serie fino a 40 anni. Un po’ come Gionatha Spinesi, che si è ritirato prima del portiere per dedicarsi a fare i caffé piuttosto che a sorseggiarli, ma la sostanza non cambia. L’ex centravanti del Catania, nel consueto sopralluogo in borghese del terreno di gioco, si presentava con un sigaro in bocca e l’aria completamente assorta da altri pensieri. Pomeriggio c’è da battere il Milan, ok, ma stasera devo aggiustare l’antenna del televisore. All’estero abbiamo Anatolij Tymoschuk, collezionista e bevitore di vini d’annata. A volte ne abusa, però in fondo siamo uomini.
Citarne altri vorrebbe dire allungare a dismisura questo pezzo, perciò mi fermo. Esagerare, nel calcio, non significa tenere un cammello nel giardino come faceva Andy Van der Meyde. Esagerare, nel calcio, significa essere normali, cioè se stessi. Se segno una doppietta sono contento a prescindere, certo, ma se la realizzo dopo una serata trascorsa in compagnia degli amici e di un buon Chianti, la felicità è tripla. Oggi i signori sopra descritti fanno parte di codesto ambiente al massimo a livello minore, nelle giovanili o nei dilettanti; si confondono tra la gente al mercato e se si fulmina una lampadina montano subito la nuova. Magari possiedono dei sogni ancora inespressi, ma almeno da oggi hanno guadagnato un posto nel circolo dei viziosi allegri
Le puntate precedenti
La sociologia nel pallone: parola a Francesco Mattioli
Francisco Ramon Lojacono: un ricordo da salvare
Luciano Re Cecconi: la diversità fatta persona
Jason Mayelé: il ritardatario che volava sulla fascia