Cassa-no: repetita (non) iuvant

Ancora. Per l’ennesima volta, Antonio Cassano, non è riuscito a mantenere fede alle promesse fatte. No, non mi riferisco ai gol, agli assist e ai passaggi decisivi: quelli gli riescono indistintamente dal 12 luglio 1982, giorno della nascita in quel di Bari. Nessuno avrebbe mai immaginato che quel piccolo ragazzo avrebbe scalato ogni gerarchia nel mondo del calcio.

Da giovane promessa a talento prodigio, da separato in casa a decisivo per le sorti del proprio club. La storia di Fantantonio non è mai banale, nonostante sia stata raccontata in tutte le salse da quotidiani, televisioni e tabloid di tutto il mondo. Un ragazzo che viene dalla periferia, dalla povertà più assoluta, e che riesce a coronare il sogno di una vita è sempre una storia affascinante da sentirsi ripetere: che lo aspettasse una carriera da sogno, d’altronde, lo si era capito sin da subito, quando entrò a gran voce nell’élite del calcio nostrano con quel gol – da sogno, per l’appunto – segnato all’Inter. Un’escalation vera e propria sino ad arrivare alla città eterna, Roma, dove viene considerato l’erede di Francesco Totti; poi i rapporti a Roma si incrinano e inizia una nuova opportunità, Madrid.

Giocare con Ronaldo, Casillas, Sergio Ramos, Zidane: un’apoteosi per qualunque persona nata con la “fissa” del pallone. Da Bari alla capitale spagnola il passo è molto lungo, ma uno come lui lo ha fatto sembrare infinitamente breve. Breve come il tempo che impiega nel fare la giocata giusta: non importa cosa sia, se il passaggio smarcante oppure il tiro a fil di palo. Non è un problema, tanto con il pallone tra i piedi non c’è nessuna cosa che non sia in grado di fare.
Un talento del genere, associato alla stabilità e all’equilibrio di un qualunque calciatore nella media, avrebbe potuto battere qualsiasi record. Invece no, perché il “genio” di Cassano è anche questo. Le “Cassanate“, come va di moda ripetere da ormai dieci anni, fanno parte del gioco: il problema è che, apparentemente, questo non sarebbe un gioco ma la vita reale, fatta di relazioni con individui e compromessi a cui scendere nell’interesse del bene comune.

La lite con Stramaccioni è soltanto l’ultima di una lunga serie che ha fatto da sfondo alle belle giocate del talento di Bari Vecchia. Eppure lo avevano detto tutti quanti, sin dal primo giorno in cui era arrivato ad Appiano Gentile: “Vi farà penare, è solo questione di tempo“. A quanto pare, però, si sperava davvero che Cassano fosse come il vino, cioè migliorasse invecchiando: invece non è avvenuto nessun miracolo, e nemmeno il trattamento di un presidente “paterno” come Moratti è riuscito a calmare i suoi impeti. Il rapporto idilliaco con il tecnico romano, iniziato negli spogliatoi di un derby in cui erano avversari (“Oh Strama, bene bene…“) è terminato sempre nello stesso luogo, ma questa volta con lo stesso stemma cucito sul petto.

Le ripercussioni sono note: sentite scuse allo spogliatoio e al mister, si finisce il campionato separati in casa per poi dividere, una volta per tutte, le proprie strade. Il problema è che Cassano di strade ne ha condivise tante, forse troppe, con molti club in Italia e nel mondo. Nonostante tutto, comunque, può vantare di aver portato una squadra come la Sampdoria ai preliminari di Champions League, di aver vinto un campionato spagnolo con il Real Madrid, uno scudetto e una supercoppa italiana con il Milan, ed essersi laureato vice-campione d’Europa con la nazionale di Cesare Prandelli. Una bacheca niente male. Non da comprimario, non da separato in casa, non da gregario: ma da protagonista assoluto, qual è sempre stato in tutti i club in cui ha militato.

Il problema, però, sta a monte: anzi in testa, perché nel calcio si può cambiare tutto, dal ruolo alla maglia, ma la testa no. Quella resterà sempre il fardello di Cassano. No, mi correggo: quella resterà sempre il fardello degli allenatori, dei compagni di squadra e dei Presidenti del fantasista. Perché alla fine sono loro quelli costretti ad averci a che fare tutti i giorni: e se in campo è un’esperienza mozzafiato, fuori lo è altrettanto, ma nel senso diametralmente opposto.

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Alessandro Lelli