Home » Napoli e quel braccino corto

Eppure il fine settimana era iniziato nel migliore dei modi, per il Napoli.
La Juventus aveva perso all’Olimpico contro la Roma e c’era la possibilità di ridurre a soli due punti il distacco con i bianconeri, in vista poi dello scontro diretto del San Paolo in programma tra due domeniche.

Eppure l’ostacolo presentato alla vigilia da questa Sampdoria non sembrava insormontabile.
Sì, va bene, hanno fatto tre gol alla Roma settimana scorsa, ma chi non ha fatto tre gol alla Roma quest’anno? Noi siamo il Napoli, abbiamo il miglior centrocampista offensivo del campionato Hamsik, abbiamo il capocannoniere Cavani.

Eppure.

Eppure succede che la partita contro la Sampdoria finisce zero a zero e che la migliore occasione sia un tiro di Hamsik deviato sul palo dal portiere avversario.
Succede che i blucerchiati sono squadra più tosta di quel che si pensava e in questo senso avrebbe dovuto far pensare che la stessa Roma travolta sette giorni prima a Marassi abbia poi battuto la Juventus nel match di sabato sera.

Eppure si è vista una squadra che, nonostante la grande spinta mentale di poter avvicinare la capolista, ha subito il contraccolpo psicologico e non è riuscita a giocare come sempre.
Una squadra composta di undici giocatori (quattordici con i cambi) a cui sono tremate le gambe nel momento del passaggio decisivo o del tiro risolutore.
Con un allenatore in panchina che aveva più paura di sprecare l’opportunità che gli è stata concessa che la voglia di raggiungerla e conquistare i tre punti.

Una sindrome, quella che ha colpito il Napoli e il suo allenatore, che nel tennis è chiamata “il braccino corto”, ossia quel momento in cui un giocatore ad un passo dalla vittoria non riesce a chiudere la partita, iniziando a tirare meno forte di quanto fatto fino a quel momento per paura di tirare fuori la pallina. Una sindrome che il dialetto milanese identifica come quella del “ciapa no'”.

Una paura che poi, inevitabilmente, si è riproposta in campo, nelle gambe appesantite dei giocatori.
La paura, forse, di diventare davvero grandi.