Un altro calcio – La sociologia nel pallone: parola a Francesco Mattioli
Prima puntata di “Un altro calcio”. Abbiamo scelto di iniziare la nostra rubrica trattando il tema della sociologia applicata al pallone; analizzeremo, quindi, i meccanismi che governano uno spogliatoio, proveremo a spiegare ciò che agisce nella mente di un tifoso e risaliremo al momento storico in cui lo sport più amato di Italia ha perso il suo retrogusto provinciale in luogo di una veste cosmopolita. Nella foto Francesco Mattioli, sociologo nato a Viterbo ma residente a Roma, dove insegna la sua materia presso l’Università “La Sapienza“. Da noi contattato, l’autore de “La comunicazione sociologica” e altri testi ci ha fornito una serie di delucidazioni davvero interessanti sull’argomento in questione.
Professor Mattioli, partiamo con una curiosità: lei è tifoso?
Tifo Fiorentina dal 1956. Essendo viterbese ed essendomi stufato dei romani che chiamano tutti gli altri laziali “burini”, mi rivolsi all’immediato nord, dove c’era cultura vera. Bisogna però precisare che certe scelte, a 9 anni, sono sempre strane. Nel 1961, peraltro, feci un provino con il Perugia assieme a Lamberto Boranga (ex portiere di Serie A che a 66 anni gioca ancora in Seconda Categoria!), ma poi per motivi di studio lasciai tutto. In seguito partecipai a tornei amatoriali e dilettantistici fino a 30 anni, prima come ala sinistra (sono ambidestro e correvo i 100m in 12”) poi come portiere.
Il calcio è uno degli ambienti lavorativi più adatti a favorire la nascita e lo sviluppo di amicizie?
In ambiente amatoriale certamente sì. Nei professionisti è invece meno semplice, soprattutto per i calciatori che cambiano diverse squadre. Poi, come sempre, dipende dagli spogliatoi che si incontrano…
Prendiamo due situazioni: una squadra in cui non c’è amicizia tra i membri ma solo rapporti professionali e un’altra in cui, al contrario, c’è anche affetto tra i vari componenti. Vantaggi e svantaggi di entrambe.
Direi, in generale, che lo spogliatoio è importante. Altrimenti non servirebbe fare i campionati perché si assegnerebbe la vittoria alla squadra con il tasso tecnico più elevato. Ricordo che con una mia papera da portiere prendemmo un gol all’88’ dalla capolista (noi eravamo terz’ultimi e avevamo tenuto fino a quel momento lo 0-0). Poi al 91’ l’arbitro ci assegnò un rigore insperato. Contro il parere del mister, i miei compagni me lo fecero tirare: finì 1-1.
La creazione di un nemico da parte dell’allenatore (vedi Mourinho) ha davvero l’effetto di compattare e unire il gruppo? Se sì, perché?
La sociologia dei gruppi insegna che nella cosiddetta dinamica in-group/out-group la minaccia di un nemico esterno rinsalda la coesione del gruppo stesso, che si dimentica dei conflitti interni. E’ una tecnica usata dai dittatori per evitare la contestazione: Mussolini, ad esempio, parlava del pericolo giallo o della sporca Inghilterra…
Può rintracciare il momento storico in cui il calcio ha fatto concretamente il salto da sport “normale” a fenomeno di massa globalizzato e quindi a business, show ecc…?
La globalizzazione e i nuovi media hanno avvicinato tutto e tutti in un’orgia di business e di consumi: credo si possa risalire ai primi anni 80 per avere i primi sintomi di questa trasformazione.
E lei come se le spiega questa trasformazione?
Lo sport professionistico non è uno sport in senso stretto: è uno spettacolo, quindi come tale segue delle regole. Perché i milanesi tifano Inter o Milan se non c’è neppure un lombardo in squadra? E un siciliano perché tifa ugualmente Inter e Milan? Perché il campanilismo non ha più senso. Ho un amico che tifa Real Madrid e non parla una parola di spagnolo. Le regole sono quelle dell’industria dello spettacolo: i giocatori scendono in campo con un proprio look e completamente sponsorizzati; parlano solo sullo sfondo di scritte pubblicitarie, ecc… Ma questo ormai vale per i talent, i talk show, le tribune politiche e chi più ne ha più ne metta.
Il calcio come influenza la psiche del tifoso (in particolare di quello giovanissimo) al giorno d’oggi? Mi spiego meglio: ormai è diventato un fattore di coesione e di scissione; la gente si unisce in gruppo e litiga con gli altri, magari per le dichiarazioni di un 20enne che non ha nemmeno la terza media. Ciò in sostanza è assurdo e illogico, però per il tifoso la ragione non esiste. Perché tutto ciò? Quali sono i motivi (psicologici, culturali, sociali, storici) dell’esistenza di un tifo così estremo in Italia?
Il tifo è estremo ovunque. In Italia c’è di mezzo il campanilismo paesano di origine medievale. Generalizzando, diciamo che c’è la necessità di aggrapparsi ad una maglia, un simbolo o un goleador in cui vedere una ragione della propria esistenza e della propria appartenenza. Anche il tifo razzista non fa che seguire gli stessi criteri: si cerca di mettere in difficoltà l’avversario più temuto, insistendo su stereotipi, pregiudizi e tutto ciò che può far sentire più forti del forte. Spesso si è volutamente ciechi in nome di una passione, per poter credere in qualche cosa: ecco gli irriducibili che tifano pure la squadra che sta facendo un campionato pessimo. E ci si mettono anche i mass media, perché i quotidiani spesso sono i più tifosi e i più ciechi. A sentire il “Messaggero”, per esempio, Lazio e Roma dovrebbero essere prima e seconda in classifica per tutti i punti che arbitri cattivi hanno rubato loro.
Ma ciò è normale. Il vero problema, piuttosto, è il teppismo comune che si infiltra nel tifo, trovandone sponda, varco e occasione. Alla fin fine, il teppista tifoso da qualcuno è tollerato, da qualcuno è protetto, da qualcuno è temuto. Bisognerebbe intervenire con più decisione, anche a livello di esito delle partite, sospendendole o facendole disputare a porte chiuse. Un esempio: chi non voleva la tessera del tifoso? Chi, guarda caso, non voleva essere registrato? Altro che discorso di libertà, era un discorso di comodo. La nostra società è violenta e purtroppo fin troppo tollerante con i violenti. Il calcio non è che lo specchio di tutto ciò. Tutti appresso al ragazzino con la terza media? Beh, certo, dovrebbe dipendere dal livello di chi gli va appresso, invece è un modo per sfogare le repressioni quotidiane. E in una società dei consumi, mi creda, il tasso di repressione è sempre alto perché è lì che ci si sente sempre inappagati…