È vero: sembra un cantante grunge. Codino, occhiali, bracciali. Pablo Daniel Osvaldo, 26 anni, 12 gol stagionali, attaccante della Roma. Forte in tutto, rapido anche nelle reazioni. Un amante veloce: sei squadre in sei anni. Mai riconfermato. Un moto a luogo. “È vero, mi piace cambiare, penso sempre che la felicità sia altrove”. Per la prima volta affronta il secondo campionato nella stessa società. Un ragazzo affascinato dal mondo noir dell’adolescenza: i pirati, i cattivi, la bandiera stracciata. Nella vita: un papà con tre figli, che non vivono con lui. In mezzo: la fuga da se stesso. “Non volevo essere Che Guevara. Anzi sognavo di amare una donna sola, di crescere una sola famiglia, di vivere nello stesso posto. Ci sono giorni in cui mi sento triste, vorrei essere un’altra persona, perdermi nel mondo. Ho nostalgia dell’Argentina, di Baires, di Lanus: della mia adolescenza. Vorrei riaverla indietro, vivere quello che ho perso, tornare ad essere un ragazzino”.
Invece?
“Sono lunatico: un giorno mi sento forte, un altro scarso. Lotto, segno, reagisco. Tutto all’eccesso. Sono stato costretto a crescere, ma c’è una parte di me dentro che rifiuta l’idea. Faccio falli inutili, ma per me in quell’attimo sono giusti”.
Nove espulsioni in sei stagioni.
“Ma sì, ho un carattere di merda. Mi piace essere così, ma non sono il solo a sbagliare. E mi devo difendere dalle cattiverie: un sito romano ha scritto che mia madre era morta. Allora chiamo casa, sono le quattro di mattina in Argentina, risponde mamma, mi metto a piangere. Chiedo: si può pubblicare una notizia così drammatica senza fare verifiche? Poi dicono: Osvaldo è nervoso”.
E non è vero?
“Mi sento troppo giudicato. Io gioco nella stessa maniera, non dipende dai soldi. Ma questo il tifoso non lo capisce: crede che siccome guadagni tanto, devi realizzare tanto. Ma anche con 600 euro al mese giocherei nello stesso modo. Io cerco la pace, ma ho i tifosi sotto casa, e se vado con mia figlia al ristorante non posso avere intimità. Non mi sento libero. Roma è affascinante, vorrei godermela di più”.
Scusi, ma Greta Garbo a New York girava indisturbata.
“Beata lei che ci riusciva. Io tutta questa attenzione non la sopporto, invidio gli sconosciuti. Il giorno del mio ventesimo compleanno, il 12 gennaio, mi sono ritrovato a Bergamo solo in una stanza d’albergo, nel mezzo del nulla, e con fuori la neve. Non conoscevo la lingua, non c’era la mia famiglia, né i miei amici, non sentivo le voci del mio quartiere. Ero disperato, ho iniziato a piangere e non ho smesso più”.
Era arrivato da dieci giorni.
“Sì all’Atalanta, in serie B. Papà a Baires faceva l’operaio in una fabbrica metallurgica, mamma la capocassiera al supermercato, ma con la crisi è tornata a casa. Ho tre sorelle più grandi e un fratello più piccolo che viene spesso a trovarmi. A Bergamo per sentirmi meno solo dissi alla mia ragazza Ana di raggiungermi. Era incinta. Le cose non migliorarono: piangevamo in due. Con l’arrivo delle nostre madri la situazione è un po’ migliorata. Ma solo un po’: eravamo troppo giovani”.
Lei ha tre figli: Gianluca, quasi 7 anni, Victoria 3, e Maria Helena, neonata.
“Non è facile: i figli sono con le loro due mamme e io non vivo con loro. Quando sto con i bimbi però il mondo non esiste. Imparo ad essere padre, loro mi aiutano. Chissà se un giorno riuscirò ad unire tutta la famiglia. Mi mancano, a me manca sempre qualcosa. Anche il mio paese”.
Ma lei gioca nella nazionale italiana.
“Sì, per via di un bisnonno di Filottrano, nelle Marche. Però la mia infanzia interrotta è in Argentina, i miei amici sono lì, quella è casa mia. Sono contento della maglia azzurra e a quelli della Lega Nord che vorrebbero solo italiani doc chiedo: che senso ha? E’ puro razzismo. Balotelli è nato a Palermo e parla bresciano, anche grazie all’oriundo Camoranesi gli azzurri hanno vinto il mondiale in Germania. E’ sbagliato offendere qualcuno solo perché non è nato dove piace a te”.
Lei è cresciuto nel mito di Maradona.
“Certo. Siamo tutti e due di Lanus. Io sono tifoso del Boca e grande fan di Riquelme, del brasiliano Ronaldo, quello vero, e di Batistuta. Maradona e Messi sono su un altro pianeta”.
Difensori che preferisce evitare?
“Rendo omaggio a Nesta, la mia bestia nera. Chiellini, ora infortunato, è un osso duro”.
E oggi c’è Roma-Milan.
“Noi siamo in crescita, sappiamo cosa fare in campo, abbiamo un’identità. Ma il calcio non è una scienza sacra e il Milan merita rispetto”.
Lei ci tiene allo stile, il suo corpo è segnato.
“L’elenco è lungo. Sono affascinato dai pirati. Ha tempo? Sì, bene. Ho un anello con il teschio, lo stesso di Keith Richards, un altro con le croci. Un braccialetto con i teschi, preso a Barcellona. Uno di pelle fatto fare apposta con la famosa ‘Tongue & Lip’ dei Rolling Stones. Una collana con il ciondolo, sempre con la lingua, e una con il segno della pace. Tatuaggi: i nomi Gianluca e Victoria, il cuore con la scritta Libertad, un angelo e una donna, una spada su una rondine, un vascello pirata, un teschio con una rosa, un pezzo di The Wall”.
Canzone preferita degli Stones?
“Nulla meglio di ‘Wild Horses'”.
“Neanche cavalli selvaggi riusciranno a portarmi via da te”.
“Io invece mi lascio trasportare da tutto. Vorrei essere sempre altrove, in altri mondi. Mi lascio rapire: anche da certi libri e autori. Come il francese Frédéric Beigbeder e dal suo ‘L’Amore dura tre anni'”.
La partita invece dura 90 minuti.
“Sì e forse solo in quel momento trovo un ordine, un po’ di calma per la mia testa. Il calcio è la mia sosta. Devo imparare a costruire, io corro, fuggo non so dove. Vorrei essere un pirata, avere altre isole, ho bisogno di fantasticare. Per questo in mezzo all’area reagisco quando mi rovinano il sogno. Devo crescere sì, ma bisogna dirlo al mio inconscio”.
[La Repubblica]