Lo sport dovrebbe consistere di giochi a somma zero: mors tua vita mea, chi vince vince, chi perde perde. A differenza della politica che dovrebbe essere un gioco a somma inferiore a zero: chi va al potere non ha diritto di instaurare una dittatura della maggioranza, bensì deve mediare con tutti, spesso rinunciando a molto. È anche per questo che determinati leader poi deludono: perché fanno della politica, cioè scendono a patti; ed è perfettamente giusto così: a garanzia delle posizioni minoritarie.
Nello sport, però, dicevamo che è diverso: vince chi arriva primo, senza discussioni; c’è poi o perlomeno ci dovrebbe essere il rispetto dell’avversario. Sempre e comunque. Ci sono più modi per mostrarlo: nei paesi latini l’idea è quella di non umiliarlo (diciamo che sul 6-0 possiamo fermarci); nei paesi anglosassoni, più spesso, l’avversario (e il pubblico) viene onorato proprio continuando a giocare senza calare d’impegno. E fin qui ci siamo.
Solo che, a leggere certe notizie (e anche questo resoconto, scritto particolarmente bene), ci rendiamo conto che a volte sport e sportività, sia andata come sia andata, non hanno più niente in comune.
Primo passo: la rivalità tra squadre brasiliane e argentine è fortissima da sempre, e a poco vale riflettere sul numero di campioni di entrambe le nazionalità (vincono i verdeoro, punto). Si potrebbe dire che è una prassi consolidata, quando si tratti di decidere la più forte tra due compagini di questi paesi (era in gioco la Copa Sudamericana), che il calcio lasci il posto ai calci. E questo è sicuramente vero, se già dopo 14 minuti della finale di andata, giocata alla Bombonera, ci siamo trovati di fronte a una doppia espulsione (Luís Fabiano da un lato, Donatti dall’altro); storia che si ripete nei minuti di recupero della finale di ritorno, con Paulo Miranda e l’esperto Ángel Gastón Díaz che rientrano definitivamente negli spogliatoi durante i minuti di recupero del primo tempo.
Solo che la stessa sorte, scientemente, verrà poi seguita da tutti gli argentini, per i fatti che sappiamo: per parte brasiliana si dice che i giocatori del Tigre avessero cercato di irrompere nello spogliatoio del São Paulo, e si irride alla «fuga degli argentini per evitare la goleada» come ha fatto Juvenal Juvêncio, presidente paulista (altri commenti li trovate nel nostro resoconto di ieri); dall’altra sponda ci si limita a mostrare le foto dello spogliatoio insanguinato e le immagini dei tagli, dei pugni (giustamente, uno che si chiama “Botta” non può aspirare ad altro) e si rimane basiti nel sapere che uno degli illesi è anche quello che se l’è vista peggio (Damián Albil: minacciato con una pistola al petto).
Però bisogna dire che le avvisaglie c’erano tutte: nei pressi dello stadio, sassate contro il pullman degli argentini (dev’essere la celebre accoglienza brasiliana), e questi sono fatti non soggetti a interpretazioni partigiane à la Juvêncio; i familiari dei giocatori erano stati bloccati fuori dallo stadio, e la stessa squadra argentina aveva quasi dovuto saltare il riscaldamento. Mettiamola in questi termini: anche qualora la prima aggressione fosse partita dai giocatori del Tigre, forse gli animi si erano accesi già troppo presto, e non credo per colpa loro.
Il Sudamerica, si sa, sportivamente è (anche) patria di fatti che con lo sport hanno poco o niente a che fare: era il 2 luglio 1994 quando Andrés Escobar, il miglior difensore della Colombia, veniva crivellato all’uscita da un ristorante da Humberto Muñoz Castro, tifoso ed ex guardia giurata, con dodici colpi di mitraglietta. Mai del tutto chiari i motivi: l’eliminazione del mondiale, il narcotraffico o un giro di scommesse fallito per colpa dell’autogol contro gli Stati Uniti. (Mai del tutto chiaro, ed è un dettaglio inquietante in ogni caso, l’urlo dell’assassino: “Gooool!” o “Golazo!” come nelle telecronache, o “Grazie per l’autogol!”.)
Non so voi, ma a volte, 18 anni dopo l’assassinio di Escobar, mi chiedo come si possa pensare di passare alla violenza per una questione sportiva. È come barare giocando a un solitario: senza senso. Vince, o perlomeno dovrebbe, chi è più sportivo: in tutti i sensi. È quello che abbiamo il dovere di sperare.