Cleto Polonia, come è la vita per un allenatore di Prima categoria?
Beh, innanzitutto direi che allenatore è una parola grossa. Guido l’Arteniese da quattro anni, ma l’ho fatto principalmente per l’amicizia che mi lega ai dirigenti del club. In ogni caso l’impegno è tanto.
Nei suoi progetti c’è quello di praticare questo mestiere ad altri livelli?
Sicuramente è una cosa a cui penso e che mi piacerebbe molto. Ho smesso di giocare dieci anni fa e da allora ho ritenuto opportuno privilegiare la famiglia. Il fatto di abitare al confine con Austria e Slovenia non mi aiuta tanto: le opportunità sono poche e i pretendi, al contrario, crescono sempre di più.
Dai professionisti ai dilettanti: quali sfumature del calcio è riuscito a cogliere grazie al suo attuale incarico?
La prima cosa che mi viene in mente, con grande rammarico, è che il calcio dilettantistico ha preso il peggio dal mondo dei professionisti. Si vogliono fare le cose in grande senza averne i mezzi, tutti ti chiedono di vincere come se bastasse la sola parola per farlo. La mia fortuna è quella di prendere il ruolo come un divertimento, altrimenti sarebbe dura.
A lei è capitata una situazione simile?
Non all’Arteniese, che è una realtà seria e tranquilla. Mi è capitata con un’altra società dilettantistica. I concetti del calcio sono stati esasperati: ormai in pochi riescono a capire che prima di chiedere le vittorie ad un allenatore, bisogna fornirgli il materiale necessario per lo scopo.
Passiamo ad altro: con la maglia della Samp, per via di un brutto infortunio, ha giocato poco. Ma se le nomino la parola derby?
Il derby di Genova è una partita stupenda, soprattutto grazie al fascino di Marassi. Le due tifoserie ci tengono molto, come è logico che sia, e scommetto che in città l’atmosfera sarà già elettrizzante. Dal punto di vista tecnico, invece, si affrontano due squadre in crisi e per chi perde saranno guai seri.
Cosa differenzia questa stracittadina dalle altre?
Lo stadio, senza dubbio. Abbiamo appena assistito al derby di Roma, il più sentito d’Italia, ma francamente vedere le due curve così lontano dal campo non è stato un bello spettacolo. A Genova hai i tifosi attaccati, senti il loro fiato sul collo. E’davvero un’altra cosa.
La sua carriera da calciatore è segnata principalmente da sette anni di Piacenza, un club adesso lontano dalle grandi vetrine…
Il fallimento del Piacenza è stato un enorme dispiacere. Ai miei tempi avevamo costruito qualcosa di importantissimo e la società era vista come un modello di calcio provinciale dall’Italia intera. Negli ultimi anni, evidentemente, c’è stato uno sperpero eccessivo e nel mondo di oggi queste cose si pagano a caro prezzo.
Gigi Cagni è stato il tecnico più importante che ha avuto?
Sì, è quello che ricordo con maggior piacere. Oltre ad insegnarmi tantissimo sotto il profilo tecnico, è stato l’unico ad avermi migliorato anche come uomo. Gli sarò sempre riconoscente.
Cleto Polonia, marcatore arcigno di un calcio che non c’è più. Perché ai ragazzi di oggi insegnano solo la zona?
Il calcio è cambiato, adesso si privilegia il fattore estetico. Fino a quindici anni fa, la visione delle cose era completamente diversa: il difensore doveva innanzitutto mordere le caviglie al centravanti avversario, impedendogli in ogni modo di trovare la via del gol. Il mio più grande rammarico, infatti, è quello di non aver mai potuto giocare a zona, perché chi è abituato alla marcatura a uomo può adattarsi senza problemi mentre il contrario non è possibile.
In sostanza voi difensori di una volta eravate più forti?
Dico solo che era un calcio diverso. A Piacenza, ad esempio, avevamo un maestro come Cagni che da ex difensore curava moltissimo il concetto di marcatura. Adesso si lavora invece su una miriade di situazione, tattiche e atletiche, ma resto convinto che alcuni insegnamenti di una volta dovrebbero essere scongelati.