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Ma il vero problema non è il fair play finanziario

Dopo un approfondimento serio e documentato come quello di ieri del nostro Francesco Mariani, si impone una riflessione. A chi, a cosa serve il fair play finanziario? E poi: serve davvero?

Anzitutto un doveroso riepilogo: il meccanismo denominato “fair play finanziario” (FPF) dovrebbe servire a imporre ai club un risultato economico (ricavi meno costi, al netto di alcune spese “virtuose” che rimangono a bilancio ma non vengono contate in questa valutazione) sostenibile; quando non si tratti di un risultato positivo o di un pareggio di bilancio, esistono alcuni parametri da rispettare per il passivo.

Fin qui sembra tutto in regola: si danno a tutti eguali possibilità, a prescindere che siano emiri o semplici appassionati; purché tengano i conti in ordine. E li tengano nel modo più giusto: costruendo l’equilibrio sul fatturato “naturale” della squadra, per evitare che magari un emiro o un oligarca venga, faccia campagne acquisti faraoniche e poi si stanchi del giochino e decida di abbandonare una squadra che nessun altro sarà più in grado di sostenere.

Però c’è un però, tanto per cominciare. Dobbiamo pensare al rischio legato alle sponsorizzazioni: un proprietario facoltoso può trovare il modo di autosponsorizzarsi per cifre astronomiche, in barba alle regole del FPF. E qui ci sarebbe anche una doverosa correzione, per fortuna:

Non dimenticherei il fatto che, per squadre dove il presidente è anche “padrone” dello sponsor (leggasi Man City) il problema dei Fair Play è assolutamente inesistente. Questo sballa tutto il mercato e le buone intenzioni di chi cerca di giocare con il bilancio pulito: la commissione che valuterà i dati sul FPF è tenuta a rettificare i valori delle sponsorizzazioni con le “parti correlate” (lessico UEFA per indicare che lo sponsor ha un interesse diretto nella società), scegliendo il prezzo giusto tra il valore corrente di mercato e il dato iscritto a bilancio. Già, ma non penso che sarà un’operazione facile, e tantomeno che non ci saranno pressioni, recriminazioni e guerre mediatiche.

E già il Paris Saint-Germain è partito in quarta: proprietà qatariota, e la Banca Nazionale del Qatar che, dal 2014, sarebbe pronta a staccare un assegno di 400 milioni in 4 anni per aggiudicarsi la sponsorizzazione e forse anche il nome del Parco dei Principi. Il direttore generale, Jean-Claude Blanc, per ora non si sbilancia: &#171Un gran numero di contratti è attualmente in corso di discussione», dice — e a me viene da ridere, come capirete tra poco.

Perché devo dire che la prima differenza che noto, adesso, rispetto a prima, è che abbiamo un calciomercato più equilibrato. Non ho detto migliore, non ho detto peggiore: equilibrato. C’è meno distanza tra le grandi e le piccole, perché nessuna può spendere granché (chi perché non ha soldi da buttare, chi per via del FPF). Con l’arrivo della crisi, il calciomercato non ne ha risentito subito: meno 155 milioni nel 2008, meno 222 nel 2009. Ma ora la crisi morde ancora, e sono passati oltre quattro anni; e per chi comunque avrebbe delle possibilità, c’è la UEFA alla porta.

La Juventus è quella che ha speso di più, ma è anche l’unica che può permettersi determinati azzardi: ha già uno stadio di proprietà, e ha tutta l’intenzione di farlo fruttare a dovere. (Ironia della sorte, lo Juventus Stadium è venuto su durante la dirigenza di Jean-Claude Blanc: lo stesso Blanc che adesso è al Paris Saint-Germain, nell’occhio del ciclone per il FPF.) Può investire e programmare, un lusso non da poco. E un merito.

Il Milan si ritrova in una situazione peggiore: ha abbattuto notevolmente i costi (non rinnovando Seedorf, Nesta e tutti gli altri) e cedendo Ibrahimović e Thiago Silva, ma al contempo soffrirà di minori entrate a causa delle velleità minori (diciamocelo pure: con tutta la stima e il rispetto, ma non si vince la Champions passando dal miglior difensore del mondo ad Acerbi). La perdita di bilancio così viene molto contenuta, ma le possibilità di sviluppo sono nettamente più basse che a Torino. Meno incassi per le partite, meno premi per i turni in Champions, meno entusiasmo della tifoseria, probabile minore merchandising… una spirale negativa che mi ricorda qualcosa.

Se dovessi in qualche modo citare qualche altro esempio virtuoso, alle nostre latitudini, non potrei esimermi dal parlare del Napoli: conti in attivo nel 2011, adesso vede certamente lievitare il monte stipendi (il rinnovo di Cavani, la rosa più lunga); eppure, a quanto pare, la somma dovrebbe rimanere al di sotto del 50% del fatturato totale, un caso più unico che raro. E poi c’è la Champions, con i suoi incassi e i suoi premi: e se non è Champions, allora va bene anche l’Europa League. Per assurdo, il giorno che cedesse (a peso d’oro) Edinson Cavani, avrebbe le carte in regola per puntare allo scudetto, visto che le regole del FPF limiterebbero le possibilità di spesa delle dirette concorrenti.

E all’estero? Prendo l’esempio più lampante, il Barcelona: una campagna acquisti solida (Jordi Alba e Song) ma non sontuosa, e soprattutto una situazione economica positiva: grande indebitamento, ma in diminuzione, per via di un fatturato enorme (quasi 500 milioni: praticamente doppio di qualsiasi squadra italiana di punta). Per certi versi è la conferma dell’utilità del FPF, per altri versi ne è la più totale confutazione: perché dimostra come, con un forte indebitamento precedente, adesso l’economia della società (una polisportiva, oltretutto) è in forte crescita, e i problemi sono in via di risoluzione. Dovremmo imparare la lezione.

Oppure, se vogliamo, possiamo parlare della media spettatori del Borussia Dortmund: oltre 75000 a partita, giusto per capire come altrove non si sia strettamente dipendenti dalle televisioni; e anche qui c’è un rovescio della medaglia, perché per le emittenti straniere il calcio italiano non è più il primo pensiero, anzi; e noi non abbiamo più idee per invertire la tendenza. E forse questo, alla fine della fiera, è ben più importante delle nostre beghe casalinghe, o di qualsiasi parametro economico.